Il significato dell’espressione 物の哀れ mono no aware si è per certi versi perso nel manto di fascino che l’ha ormai avvolta. D’altronde dare spiegazioni complesse di cose molto semplici è una tentazione molto comune quando si parla di letteratura e ancora di più quando si parla di Giappone e giapponese tra noi appassionati di Giappone. Oggi cercheremo dunque di separare il concetto dalla parola, vedremo da un lato dove nasce questa affascinante idea, e dall’altro vedremo come nasce questa banale (sì, banale) parola.

Mono no aware è un’espressione nata dalla critica letteraria per indicare un concetto che affiora spesso, da mille anni a questa parte, nella letteratura giapponese (prosa e poesia) così come al cinema (dai film in bianco e nero agli anime di ultima generazione).

Il concetto in questione è quello di una partecipazione emotiva di fronte a determinate scene che ci ricordano la caducità delle cose, come tutto sia destinato a passare, morire.

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Si avvicina molto all’idea espressa da Virgilio nell’Eneide e sintetizzata nell’espressione “lacrimae rerum” (lacrime del/per le cose), che Virgilio fa usare ad Enea quando questi capisce d’essere al sicuro perché si rende conto di essere tra persone che si commuovono di fronte all’impermanenza delle cose, alla fragilità della vita umana.

Dunque sebbene quello di “Mono no aware” non sia un concetto del tutto nuovo, né solo giapponese, racchiude qualcosa in più del lacrimae rerum di Virgilio.

Parlare di “commuoversi al pensiero della fine”, di fronte alla morte, sarebbe riduttivo. Va detto per esempio che “commozione” è forse un termine eccessivo, perché l’idea dietro l’espressione mono no aware molto spesso porta con sé una serena rassegnazione. C’è commozione mentre il personaggio contempla la scena (o lo spettatore ammira l’opera), ma senza pianto, senza tragedia; gli si unisce invece un’idea (per quanto vaga) che richiama la meraviglia di fronte alle cose.

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Mono no aware indica ad esempio l’incanto che un bel tramonto porta con sé, significa percepirne la bellezza, con la consapevolezza, però, che qualcosa di così bello è irripetibile ed avrà presto una fine. mono no aware oltre il velo della bellezza (2)

Insomma, nell’ammirazione e nella quieta commozione che la scena suscita si annida anche un sereno disincanto, privo sia d’amarezza che di trasporto, una chiara visione del mondo nella sua ineluttabilità e caducità.

La filosofia espressa con le parole 物の哀れ Mono no aware unisce così incanto e disincanto; è uno sguardo calmo sulla fine e sull’oblio oltre il velo della bellezza e del sentimento.

Proviamo però a distinguere tra la “filosofia” e l’espressione in sé: “Mono no aware” vuol dire tutto ciò? No. Da un punto di vista etimologico la traduzione di questa espressione potrebbe essere “la commozione (o lo stupore) di fronte alle cose”, mentre la sua traduzione letterale rischia di essere ancor più deludente purtroppo, quasi banale.

Aware è una parola di origine giapponese che, in tempi relativamente recenti, si è iniziato a scrivere あわれ ma che in origine era あはれ ahare (molti suoni “ha” nel giapponese sono divenuti “wa” con il tempo… è successo lo stesso con il famoso termine “kawaii”). あはれ ahare deriva invece da あは aha seguita da un suffisso (れ re) che non ne altera il senso. E cosa significa aha? Più o meno quel che significa il nostro “oooh”! In origine era un’esclamazione usata per esprimere un intenso sentimento, proveniente dal profondo del cuore, un sentimento che poteva essere di gioia, stupore, ammirazione… ma anche di tristezza e di dolore.

Era ancora questo il significato di aware quando venne usato a corte da Sei Shounagon oltre mille anni fa nel suo Makura no Soushi (commenti sul cuscino), quando fu usato nel suo Genji Monogatari da Murasaki shikibu (che in termini più moderni dovremmo chiamare “Lady Violet”).

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Ma i sentimenti che sfuggono come un sospiro all’autore non erano appannaggio femminile: aware è usato anche dal guerriero, monaco e poeta, Saigyou, quando, sul finire dell’epoca Heian, durante un viaggio si commuove di fronte allo spettacolo della luna e pensa a come guardare la luna e dire “aware” sotto il cielo della capitale, in confronto non aveva valore, per un poeta era solo un modo di ingannare il tempo e nulla più.

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Durante il Medioevo giapponese (1185-1573 d.C.) il significato di aware però cambiò, o meglio, “si ridusse”, perdendo, in un certo qual modo, un po’ del suo fascino. Si iniziò ad usare l’espressione あっぱれ appare, ottenuta sonorizzando, cioè “rafforzando”, il suono della parola あはれ ahare (d’altronde H e P sono “parenti stretti” nella lingua giapponese). Rafforzandone il suono se ne “rafforzò il senso” e appare venne usata per indicare stupore, ammirazione (come oggigiorno) ma anche grande sorpresa, intensa tristezza e perfino per dare un senso di aspettativa o per aggiungere un tono di risolutezza …tutti significati che nella lingua moderna sono stati dimenticati o quasi. D’altronde i kanji che gli sono stati attribuiti sono quelli di “bel tempo” (天晴れ): come potrebbe avere significati negativi?

Cos’è successo nel frattempo ad ahare? Anche lui ha ricevuto dei kanji che ne hanno meglio fissato il significato: oggigiorno si scrive 哀れ o 憐れ, cioè con i kanji che indicano un dolore ed un senso di pietà, compassione, rispettivamente. Nei casi in cui serve ad esprimere commozione si dovrebbe usare rigorosamente la scrittura in kana (caratteri fonetici, diversamente dai kanji sono privi di significato, come le nostre lettere). Dunque al giorno d’oggi si scriverà あわれ aware, ma era あはれ ahare fino a non molto tempo fa. Ancora ad inizio ‘900, per esempio, lo scrittore e poeta Haruo Satou scriveva: あはれ、秋かぜよ情あらば伝えてよ ahare aki kaze yo kokoro araba tsutaete yo, che reso in termini moderni sarebbe qualcosa come “Aaah… Vento d’autunno, per favore, se anche tu hai un cuore, falle sapere che […]”; è l’inizio di una poesia in cui Satou ci lascia intravedere il suo eterno amore per la moglie… la moglie di un altro, anzi, per la precisione la moglie del suo amico, il famoso Tanizaki Jun’ichiro.

Le origini quasi banali dell’espressione aware nulla tolgono alla commovente bellezza del pensiero giapponese riassunto nell’espressione mono no aware, spero però che queste poche righe permettano a tutti di scostare il velo che tanta bellezza inevitabilmente crea e di cogliere la differenza tra il reale significato della parola da un lato e, dall’altro, l’idea, quasi filosofica, a cui è stata associata.

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17 thoughts on “Mono no aware, Oltre il velo della bellezza

  1. Che bellissimo articolo! Sono digiuna d lingua giapponese e so solo riconoscere il carattere per “ha”/”wa” e per “yo” ma la spiegazione linguistica, storica e filosofica è davvero ben fatta. Ti ringrazio tantissimo per questo approfondimento **

  2. Bellissimo post. Ottima spiegazione associata a meravigliosi quadri. Momenti in cui ci si sente trasportati su un altra dimensione…se non fosse per la realtà materializzatasi in mia moglie che mi chiede: Vuoi il caffè?. E tutto svanisce!. Complimenti caro Riccardo.
    Salvatore Cianci.

    1. L’origine non è banale, una parola o un’espressione non ha un significato univoco,spesso, questo concetto ha una sua profondità già in partenza, molti monaci Buddhisti in Giappone lo associano al loro percorso.

      1. Che bello che sarebbe se la gente leggesse gli articoli per davvero, invece di scorrerli e guardare solo il grassetto.
        Hai frainteso la parola “origine” che nell’articolo è riferita all’origine dell’espressione (linguisticamente), credendo invece fosse legata all’origine del concetto.
        Peccato, ti sei perso un bell’articolo che mi è costato tempo e fatica scrivere (oltre a SERIE RICERCHE, non post su facebook eh)

  3. Non è così per tutte le parole in fondo..? Si allontanano dall’origine etimologica e possono arrivare a comprendere in sé svariati e più profondi significati… Basti pensare alla parola “anima” che viene dal greco anemos (“vento”).

Fatti sentire!

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