rakka ryuusuiPreparatevi, perché la domanda posta da uno di voi mi permette di presentarvi uno degli articoli più interessanti che io abbia scritto per tutti quelli davvero appassionati di parole e kanji… per gli altri invece, be’, c’è sempre il prossimo articolo, abbiate pazienza.

Da una commento di karuro16

A volte le parole composte sono comprensibili pensando che il primo kanji fa da aggettivo e il secondo da sostantivo (all’inglese, per capirci), ma questa regola mi pare che si possa applicare di rado.

Hai proprio ragione… ma non è una regola che “si applica di rado”, più semplicemente è solo uno dei casi possibili… molti dei quali sono inaspettati e interessanti.

Vediamo dunque come si formano i 熟語 jukugo, in italiano i “composti” (ma si tratta in effetti semplicemente di sostantivi, perlopiù con kanji letti con pronuncia di origine cinese). Esistono vari casi possibili.


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Parole formate da due o più sostantivi legabili da の no


A volte è del tutto evidente, specie in composti lunghi.  La parola 会長命令 kaichoumeirei è ovviamente formata eliminando il の no tra loro: kaichou no meirei = ordine del presidente dell’associazione.

Per certi versi potremmo anche escludere (ma non mi trovereste d’accordo) che si tratti della formazione di nuovo sostantivo, attribuendo la “scomparsa del の” al linguaggio formale in cui di solito appaiono simili termini. Detto tra parentesi si potrebbe anche rafforzare l’ipotesi dicendo che un esempio simile è dato dalla scomparsa del な na dopo il suffisso 的 teki, in contesti analoghi, es. 論理的帰結 ronriteki-kiketsu, cioè “conseguenza logica”. Ad ogni modo, badiamo alla sostanza ed evitiamo di perderci in sottigliezze.

Altri casi, poi, sono meno evidenti (le parole lunghe aiutano ad accorgersi della possibile mancanza di un の), ma al tempo stesso meno in dubbio.

Prendiamo per esempio una parola che tutti conosciamo: 外国人 gaikokujin, “straniero”. A ben guardare possiamo mettere un の no tra un kanji e l’altro e ottenere ancora un’espressione giapponese di senso compiuto: 外の国の人 soto no kuni no hito, ovvero “persona di un paese di fuori” …ah, notare che i singoli kanji della parola gaikokujin sono ora diventati dei sostantivi a sé stanti, quindi userò le pronunce kun’yomi per leggerli.

Non che si sia sempre obbligati a cambiare tipo di pronuncia. Prendiamo ad esempio la parola 壁紙 kabegami. È formata da kabe, muro, e kami, carta (diviene -gami per una questione fonetica), entrambe sono già pronunce kun’yomi.

L’espressione che le lega sarà ovviamente qualcosa tipo 壁の紙 kabe no kami, ovvero la carta del muro, cioè “la carta da parati” e, per estensione, anche qualcosa di ben noto a tutti gli amanti del pc, ovvero “wallpaper” (muro = wall, carta = paper)… sì, proprio lo “sfondo del desktop”!
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Parole i cui kanji/elementi si rafforzano o si completano


I kanji di 安静 ansei (quiete, tranquillità, riposo) sono un esempio di kanji di un composto che si rafforzano a vicenda. A ben vedere hanno infatti un significato molto simile (“pace, calma”, il primo, e “tranquillità, silenzio”, il secondo).

Ovviamente gli esempi simili sono molti. Ad esempio 決定 kettei, decisione, è dato da 決 decidere (con una sfumatura legata allo scegliere) e 定 fissare, determinare.

In altri casi i significati dei due kanji che compongono il jukugo si armonizzano e si completano (pensate a due kanji che non hanno necessariamente un significato simile, ma ciascuno apporta una sfumatura che rende bene l’idea della parola composta, il jukugo per l’appunto).

Un buon esempio per questo caso è 願望 ganbou, in cui il primo kanji significa “(chiedere) un favore”, con sfumature legate a speranza e preghiera (in senso non religioso), mentre il secondo significa “speranza, desiderio”, così nel complesso la parola ganbou viene a significare desiderio, aspirazione, ambizione.
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Parole che “sommano” due termini


C’è poco da dire in realtà. Si tratta di parole che potrei riscrivere con un と to in mezzo (ovvero la “e” di congiunzione tra due sostantivi). Ad esempio abbiamo 父母 fubo, padre/i e madre/i, che equivale a 父chichi to haha. Un altro esempio è il termine 少年少女 shounen-shoujo, ovvero 少年と少女 shounen to shoujo (ragazzi e ragazze).

A volte la situazione può essere un filo più complessa. Ad esempio prendiamo due termini come 祖父 sofu, nonno, e 祖母 sobo, nonna. Possiamo ottenere un terzo termine che equivale a 祖父と祖母 sofu to sobo, nonno e nonna, ma dato che il primo kanji è uguale il risultato non è un semplice accostamento dei due, otteniamo 祖父母 sofubo.

Altri esempi quasi banali si hanno con i giorni della settimana. Questi come sappiamo terminano di norma in 曜日 youbi (i.e. giorno della settimana), ma ciò non succede se sono “messi insieme”. Dunque se volete dire che il negozio è aperto lunedì, mercoledì e venerdì, direte che è aperto 月水金 gessuikin… 月水木 gessuimoku, se è aperto lunedì, mercoledì e giovedì, gessuimokukin se è aperto anche il venerdì.

I termini più usati sono quelli per indicare un giorno sì e uno no, quindi 月水金 gessuikin e 火木土 kamokudo (mar-giov-sab). Anche se il più usato di tutti è quello che indica il week-end, ovvero 土日 donichi.

Ci sono poi dei termini nei quali sono ugualmente accostati dei kanji, “legati” da una semplice “e” (o se preferite と to), ma il significato che voglio rendere è un po’ più complesso della loro semplice “somma”, una sorta di gestalt, per chi tra voi è più germanofono. Il donichi visto sopra, forse rende l’idea, perché non significa solo “sabato e domenica”, ma anche “week-end”, no?

Un primo esempio, più banale, è 春夏秋冬 kachoufuugetsushunkanshuutou. Sono i kanji delle quattre stagioni, ma non vanon intesi come primavera, estate, autunno e inverno, quanto come l’idea “unica” de “le quattro stagioni” (anche dette 四季 shiki, con i kanji di “quattro” e “stagioni”)… no, non la pizza.

Per restare, quasi, in tema, abbiamo anche 花鳥風月 kachoufuugetsu, che significherebbe semplicemente “fiori, uccelli, vento e luna”, ma difatti assume un senso più ampio e profondo, ovvero “la (bellezza) della Natura”.

Meno poetico ma altrettanto importante è il termine 年月日 nengappi, che equivale a anno, mese e giorno, ma difatti significa “data”. A volte poi è preceduto dal kanji di nascere, ovvero 生 (sei) a dare 生年月日 seinengappi. Di sicuro potete immaginarne il significato…

Per finire, e tanto per ritornare ai giorni della settimana, esiste anche un termine, di origine militare, che esclude sabato-domenica dal novero dei giorni della settimana sostituendoli con lunedì e venerdì, così diviene 月月火水木金金 getsugetsukasuimokukin… che viene ritenuto un modo di dire “lavorare tutti i giorni della settimana” (perché appunto sabato e domenica sono come un venerdì e un lunedì)…. faticate a crederci, eccolo!

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Parole formate da aggettivo e sostantivo


L’aggettivo in questione può essere sia in -i che in -na. Questo secondo è il caso di 主食 shushoku, che possiamo leggere anche 主な食 omo na shoku, (o 主な食べ物 omo na tabemono) ovvero cibo/pietanza principale; è un termine usato per riso, pane, spaghetti… ecc., che indica ciò che non è おかず okazu (un termine altrettanto difficile da tradurre che indica ciò che si mangia insieme al riso bianco… Fate conto che riportando il discorso a un nostro panino, indicherebbe il companatico).

Due termini che usano un aggettivo in -i, invece, sono 美女 bijo e 美男 binan, che sarebbero rispettivamente 美しい女 utsukushii onna (bella donna) e 美しい男 utsukushii otoko (bell’uomo). Esiste anche il termine 美人 bijin, ovvero 美しい人 utsukushii hito, letteralmente “bella persona”, ma è riferito unicamente alle donne, non è unisex come si potrebbe credere.

Possiamo fare un passo oltre e vedere un termine più complesso, come 美男子 bidanshi, ovvero 美しい男の子 utsukushii otoko no ko, dove “otoko no ko” indica un bambino o ragazzo (insomma, il sostantivo “otoko” è usato quasi come un aggettivo per porre al maschile il termine “neutro” 子 ko, bambino/a).

Detto tra parentesi, bidanshi è un termine molto amato e molto usato dalle 腐女子 fujoshi, ovvero dalle 腐っている女の子 kusatte iru onna no ko, cioè le ragazze marce (notare il verbo kusatte iru usato per rendere l’aggettivo “marce”). Non mi se ne voglia, non ho inventato io il termine e non discrimino le fujoshi… ne ho sposata una!

E ormai il tema è stato introdotto dalle fujoshi, quindi vediamo…
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I termini formati da verbi e sostantivi


Molti sostantivi si presentano nella forma verbo+aggettivo (i.e. il primo kanji rappresenta un verbo, il secondo kanji indica un sostantivo). La maggior parte di questi equivarrà a costruire una frase relativa (un verbo che precede un sostantivo, crea una frase relativa riferita a quel sostantivo).

Se ad esempio io dico (a) hon wo katta, intendo “ho comprato un libro”, ma se dico (b) katta hon, intendo “il libro che ho comprato”, creo cioè una frase relativa riferita a hon, “libro”.

Per la particolare natura della frase relativa giapponese, non servono pronomi per fare frasi relative. Dunque se prendo un’espressione come la frase (b) e la trasformo in una frase tipo (a), mi accorgo che il sostantivo, che in espressioni come (b) “regge” il verbo, in frasi tipo (a) può essere il soggetto del verbo o il complemento oggetto (come nell’esempio del libro) o perfino un altro elemento della frase (ad esempio il luogo in cui è svolta l’azione espressa dal verbo). Vediamo degli esempi di sostantivi costruiti a partire da frasi relative.

La parola 商人 shounin (a volte akindo o anche akiudo), ovvero “commerciante”, equivale ad 商う人 akinau hito, ovvero “persona che commercia”. Allo stesso modo la parola 移民 imin, “espatriato/i”, equivale a 移住した民 ijuu shita tami, “popolo/sudditi che si sono trasferiti”… fa quasi ridere, ma trasmette il senso del termine, no?

Avete capito? In sostanza prendo il primo kanji del mio jukugo e mi accorgo che esprime un verbo, mentre il secondo esprime un sostantivo. Quindi capisco che posso riscrivere il composto come una frase relativa (il più delle volte semplicemente un verbo) seguita da un sostantivo: akinau hito, persona (hito) che commercia (akinau). Ok, se avete capito, facciamo un passo oltre.

La parola 有名 yuumei, “famoso”, è  formata dai kanji di 有る aru, “possedere”, e 名 na, “nome” (se pensate al fatto che “nomea” in italiano significa “fama”, o ancora, all’espressione “farsi un nome”, capirete perché vuol dire “famoso”). Non trascriviamo questo termine come 有る名 aru na (verbo+sostantivo), perché il termine in sé non è un sostantivo, bensì un aggettivo, e a breve vedremo che forma assume quando proviamo a “riscriverlo”.

Sia per shounin che per imin, il sostantivo presente in queste due parole è il soggetto, logicamente parlando, del verbo che lo precede. Lo stesso vale per yuumei, in cui ho il verbo aru, che in giapponese è particolare, e il sostantivo na: quest’ultimo in effetti è il soggetto di aru, non il complemento oggetto come in italiano.

Ma non è tutto qui. Non solo 名 na è il soggetto di aru, logicamente (così come hito era soggetto di akinau in “persona che commercia”), lo è anche grammaticalmente perché yuumei è aggettivo e quindi lo riscriviamo come una frase relativa con tanto di soggetto e senza sostantivo a seguire: 名が有る na ga aru. Diventa abbastanza evidente se prendiamo una parola come 有名人 yuumeijin, persona famosa, che posso riscrivere come 有名な人 yuumei na hito, ma anche 名が有る人 na ga aru hito, ovvero “persona che ha un nome” (dico “ha un nome”, ma come vedete na è seguito da ga e quindi è il soggetto di aru, non il complemento oggetto; inoltre ricordiamo che “nome” equivale a “nomea”, “fama”).

Le cose si possono complicare anche di più. Come nel caso di 新入生 shinnyuusei: si può rendere come 新しく入った生徒 atarashiku haitta seito, “lo studente recentemente arrivato” (eventualmente posso sostituire haitta, “entrato”, con 入学した nyuugaku shita, “iscritto”, che comunque conserva il kanji di entrare, 入). All’inizio di quest’espressione abbiamo il kanji di “nuovo”, alla forma avverbiale, atarashiku… sì, avete capito bene, nel nostro gioco centrato sul creare e smontare sostantivi rientrano anche gli avverbi volendo!

E non è tutto! Il verbo della frase relativa ricavata dal primo kanji del composto (quello che esprime un verbo), può essere anche alla forma passiva! Ad esempio 作品 sakuhin, “opera”, si può intendere come 作られた品 tsukurareta shina, “oggetto prodotto”.

Nel prossimo articolo vedremo parole che identificano un’azione, ritroveremo l’ordine della frase cinese nei sostantivi giapponesi e per finire vedremo parole ottenute in modo un po’ più complesso, coinvolgendo avverbi, complementi di vario tipo… perfino aneddoti storici!

8 thoughts on “Domande – La formazione dei composti (熟語 jukugo) – prima parte

  1. Che articolone! Anzi, che postone! (il contrario del postino…)
    Non l’ho ancora letto ma intanto ti ringrazio per aver scritto un post partendo da una mia domanda. Domani me lo leggo attentamente.
    Grazie! 😉

    1. Ecco fatto, l’ho letto e riletto, e ho capito la regola: …… non ci sono regole!!!!!
      Voglio dire: ce ne sono così tante che non si può più parlare di regole ma di “possibilità”. Quindi come al solito non bisogna sforzarsi per capire ma principalmente per ricordare.
      Comunue molto molto interessante come al solito.
      Grazie Riccardo, buon anno a te e a tutti i tuoi lettori!

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