Da una domanda di karuro16

Ciao Riccardo, spulciando nella “libreria giapponese” di Firenze mi ha incuriosito un libro che ho acquistato e letto: “Giapponesi poverini!” di Lio Giallini. Curioso sottotitolo: “il sistema nipponico, ovvero la ricetta dell’infelicità”. (…) Il libro mi ha irritato sempre più via via che lo leggevo, e mi domando se sia solo una raccolta di luoghi comuni (…) o una amara e veritiera descrizione di una realtà invivibile e inaccettabile. Ti chiedo se lo conosci e nel caso cosa ne pensi.
Il Giappone che tu ami e quello descritto nel libro sono lontani anni luce
, e il contrasto fa sorgere molte perplessità.

Se altri sul sito lo hanno letto e hanno esperienze dirette di vita in Giappone mi piacerebbe sentire la loro opinione.

E’ vero e falso al tempo stesso. Il fatto è che l’autore, sospetto, valuta dal suo punto di vista di occidentale e sicuramente (giudico dalla conclusione) definisce la felicità come faremmo noi.

Se un “occidentale tipico” vivesse come un giapponese in tutto e per tutto (poniamo per assurdo che il suo volto non lo “smascheri”), quindi con la sua sensibilità di occidentale ma partecipando alla vita della società giapponese con tutti gli oneri che questa comporta… non sarebbe felice. Ma ciò sarebbe il giudizio finale secondo la propria sensibilità, secondo la propria idea di felicità (oltre che, probabilmente, un giudizio dettato anche da aspettative troppo alte e ovviamente tradite).

Non tutti però concepiscono la felicità allo stesso modo.

E, sfortunatamente (o forse no?), non tutti concepiscono il Giappone allo stesso modo.

È facile rendersene conto se una volta tanto guardiamo fuori dai confini del nostro mondo di occidentali, con le sue radici greco-romanico-cristiane con un tocco di barbarie e protestantesimo a chiazze. In Oriente in generale si valuta la felicità, ma anche i valori, i sogni ecc. in modo completamente diverso.

Si possono fare esempi precisi. Partiamo dai sogni, ovvero (per noi) le aspirazioni che una persona ha, nei confronti di una vita e di un sé stesso migliore. Il vostro sogno potrebbe essere studiare giapponese, andare in Giappone, ecc. e senza dubbio muoverete almeno qualche passo in questa direzione. Andrà diversamente forse, ma ci proverete.

Sia in Cina che in Giappone, invece, un sogno è qualcosa che si ha ma non si proverà mai a realizzare. Deve restare tale, non chiedetemi perché. È più un argomento di conversazione che un’ambizione personale. E comunque il sogno è sogno, l’antitesi della realtà: le due cose non possono incontrarsi, possono solo collidere e fare danni.

Altro punto. L’idea di andare avanti soffrendo e sopportando (lett. “mangiare sofferenza” in cinese) è la virtù più grande insieme alla 親孝行 oyakoukou, “pietà filiale”, (che gli occidentali spesso nemmeno sanno che esiste come parola).

Non ovunque il sorriso è dimostrazione di gioia, ottimismo, serenità eccetera. Chi ricorda i devastanti tsunami di alcuni anni fa, sia in Giappone che nel Sud-Est Asiatico, ricorderà anche quanta gente sorrideva anche di fronte a un immane disastro e ricorderà come i giornalisti parlassero della loro forza d’animo… senza sapere che intervistati da una tv i Giapponesi (e non solo), sentendo tutta la propria miseria messa a nudo, sorridono per nascondere il proprio imbarazzo.

Un documentario ha raccontato la storia di una madre che ha cercato sua figlia per quasi due anni (anche scavando, letteralmente, con le sue mani) per poi vedersela finalmente restituire dal mare ridotta a un semplice torso… ma mentre raccontava piangeva e sorrideva. Provava imbarazzo nel mostrare il proprio dolore e la propria disperazione, punto. Non lo faceva “perché conservava l’ottimismo”, come si è detto per il Sud Est Asiatico. Non lo faceva per via della sua grande forza d’animo, come si è detto dei Giapponesi… quelli sono solo stereotipi, niente di più.

Veniamo infine, alla felicità. Questa equivale, perlomeno in Cina e perlomeno in parte, ad essere una ruota dell’ingranaggio (o almeno ciò era vero fino a una generazione fa, ma le cose non sono cambiate completamente).

Insomma, qualcosa che per noi non solo è l’opposto della felicità ma addirittura un insulto, in Cina equivale alla felicità e alla realizzazione di sé.

Ok – direte voi – ma quest’ultimo punto riguarda la Cina. Giusto, parlo di quel che posso dire con certezza e stop. Questo non vuol dire che non sia così in Giappone, solo che non voglio affermare qualcosa con certezza se non posso provarlo. Per contro però prova qualcosa di molto importante: la felicità non è definibile univocamente.

Un cinese che ha o è tutto quel che sarebbe necessario ad un occidentale per sentirsi felice difficilmente sarà felice se non soddisfa quella che è l’idea di felicità secondo il comune sentire cinese… l’ambiente in cui vive, la convinzioni che lo circondano e con cui è cresciuto lo spingeranno ad avere altre aspettative dalla vita. Un nipote da dare ai propri genitori, ad esempio…

Con queste premesse possiamo sicuramente immaginare che l’autore, o perlomeno il titolista, non abbia capito nulla se giudica con il proprio metro di occidentale, come temo.

D’altronde è vero che il Giappone che noi amiamo e quello di cui parla l’autore sono diversi. Il Giappone che noi amiamo è quello che ci arriva tramite i media, film, serie tv, drama, anime, manga; oppure è quello turistico o quello della cultura tradizionale giapponese e delle sue arti, o ancora quello delle tante subculture: dal cosplay al mondo della musica Visual K, dall’ossessione dei fanatici della salute (i kenkou otaku) fino quella dei fanatici delle idol …o magari dei treni.

“Il Giappone che noi amiamo” non è uno, ci sono infiniti Giapponi. Ognuno ama il proprio e nessuno ama il vero Giappone, cioè il Giappone nel suo complesso e in tutta la sua complessità. Ciascuno di noi ama uno o due aspetti (a volte perfino distorti dalla lente dei media e della propria immaginazione) e si crea una propria immagine del Giappone, un’immagina che ama, più o meno alla follia, al posto del Giappone reale.

Ma quello non è il Giappone vero.

Il Giappone vero è un paese come tanti. Con i suoi pregi e difetti. È vero, molte cose sono più efficienti (attenzione, però, i treni fanno spesso ritardo), ma per contro ci sono anche vari lati negativi del vivere lì: la fatica che è richiesta sul posto di lavoro e nelle relazioni interpersonali è per noi italiani qualcosa di impressionante… Sempre che si voglia vivere da Giapponesi e non come “uno straniero in Giappone”, che alla fin fine non fa altro che andare avanti del tutto inconsapevole della realtà intorno a sé, di cosa pensano e si aspettano da lui gli altri.

D’altronde non è che non ci sia un fondo di verità nel sottotitolo del libro. C’è un libro giapponese sullo stesso tema (ma primo autore è anche qui uno straniero), che guarda al Giappone come un sistema che non pensa a rendere felici le persone. Anche qui però possiamo porci le stesse domande e darci le stesse risposte: la felicità è un concetto che esiste innanzitutto a livello culturale nella società e cosa questa “felicità” sia, come e in che misura percepirla sono cose che l’individuo apprende dal suo ambiente prima di sentire.

D’altra parte anche in Occidente capita di venire a sapere di persone che dovrebbero essere felici secondo l’idea comune di felicità (lavoro, amore, famiglia…) e invece non lo sono. C’è perfino chi non sa spiegarsi perché o cosa gli manchi per essere felice, no?

Fatte queste considerazioni e pensando al fondo di verità nel sottotitolo, come accennavo prima, non possiamo non parlare di suicidi.

Il Giappone è un paese come tanti altri, sì, ma con un altissimo numero di suicidi (ci sono 8 suicidi ogni 100 mila abitanti qui da noi e 32 in Giappone). Perché? Perché qualunque modello di società si costruisca, ci saranno sempre quelli a cui quella società proprio non va, perché l’individuo esiste, anche se la società è concepita come società collettivista, così come avviene in Giappone… E a volte l’individuo non è abbastanza malleabile e ha idee diverse da quelle che si prova a inculcargli più o meno velatamente e più o meno inconsciamente.

poveri giapponesi 02Quindi l’autore (o il titolista) ha torto e ragione nel contempo. Perché per chi è inquadrato nella società e ne condivide i valori e la “forma mentis”, il Giappone è un ottimo posto in cui vivere, se non il migliore o L’UNICO (non ci sono migrazioni di massa di giapponesi, no?).

Per chi inquadrato non è, però, può essere una società “stancante”, snervante, soffocante, opprimente perfino… ed ecco il perché di una parte dei suicidi (ci sono tanti motivi e la società è responsabile in parti molto diverse).

Suicidi che certo non sono l’unica conclusione possibile: c’è chi diventa otaku, neet, hikikomori, cosplayer, gothic loli, rockabilly, teppista… insomma c’è anche chi trova una valvola di sfogo che gli permetta di (cercare di) esprimersi. O a volte semplicemente sopporta. O al contrario è perfettamente inquadrato e imbevuto nella retorica del proprio paese, ma in base alle sue convinzioni e interpretazioni decide, di fronte al fallimento, di affrontarlo in modi completamente opposti (suicidarsi o meno), entrambi storicamente parte di una visione giapponese del mondo.

Ad ogni modo, no, non ho letto il libro, come accennavo sopra, e non penso nemmeno che lo prenderò mai in mano, specie viste le premesse (e il titolo).

8 thoughts on “Domande – Giappone: inferno o paradiso?

  1. Risposta sicuramente illuminante, dimostri ancora una volta che definirti “uno che insegna giapponese su internet” è oltremodo riduttivo.
    La tua analisi è interessante, e la condivido in massima parte (qualche dubbio mi resta, ma è normale), e se avessi avuto la tua apertura mentale forse avrei letto il libro con uno stato d’animo diverso, magari trovandolo anche interessante.
    Grazie per avermi dedicato il tuo tempo
    C

  2. sì… è sempre e solo lo sguardo che fa cambiare l’oggetto guardato … e ciò che viene percepito come differente molti cercano di “addomesticarlo” a quella che è la loro “verità”, ma come tutte le “verità” risulta fatalmente ridotta e temporanea e trancia giudizi che dividono e marchiano.
    Io penso che ci sia per ogni cosa uno sguardo dell’amore che sia capace di rinunciare alla verità in nome del respiro dell’altro e dell’altrove e in nome di quello spazio opaco che di ogni altro e di ogni altrove mai potremo conoscere.
    Nella realtà complessa in cui viviamo credo ci sia maggior bisogno di sguardi d’amore invece che tribunali pronti ad emettere sentenze.
    Probabilmente non leggerò quel libro 😛
    Ciao
    Marinella

  3. Io non leggerei mai un libro che titola così per due motivi.
    Il primo è che non sembra scritto da un antropologo (che per dettami professionali non darà mai il proprio giudizio sulla cultura che esamina) altrimenti non avrebbe usato la parola “poverini” nemmeno per scherzo. Quindi, perché dare soldi ad un tizio qualunque che guarda dall’alto in basso un’altra cultura senza nemmeno avere i mezzi professionali per farlo? Tanto vale che mi guardi un documentario su youtube.
    E se invece è un antropologo dovrebbe essere radiato da qualsiasi ordine universitario appunto per il pessimo titolo denigratorio (ma cercando su internet mi sembra più un giornalista).

    1. perché dare soldi ad un tizio qualunque che guarda dall’alto in basso un’altra cultura senza nemmeno avere i mezzi professionali per farlo? Tanto vale che mi guardi un documentario su youtube.

      Stavo crepando dal ridere XD E’ vero, mi sono detto, è proprio youtube-style XD

  4. Ognuno è libero di esprimere la propria opinione e anche di scriverci un libro. Personalmente leggo anche testi che non mi piacciono dalle premesse o dall’argomento trattato per ampliare le mie conoscenze, ma soprattutto la mente, per avere una visione senza paraocchi.
    Poiché Kakuro16 chiede espressamente di conoscere come la si pensi, le rispondo che non sono luoghi comuni, ma, nonostante ciò, dopo aver conosciuto bene il Giappone, amarlo o odiarlo è davvero solo personale.
    Dal ’90 sono stata in Giappone per lavoro anche due volte al mese. Ho viaggiato dall’Hokkaido ad Okinawa. Ho studiato giapponese a Tokyo, lavorato come volontaria con gli hikikomori ed ogni volta non vedevo l’ora di tornare in Italia, però, quando sono in Italia, non vedo l’ora di tornare in Giappone. Il mio è un amore-odio. Odio per tutto quello che sicuramente è scritto nel libro, che non ho letto, ma comprerò; odio per una struttura della società che genera hikikomori, dove è tabù parlare di burrakomin e a chi lo fa non verrà permesso di conseguire una laurea in Giappone; dove la primogenitura è un onere gravoso, mentre i secondogeniti e successivi figli si possono tranquillamente lavare le mani di ogni problema familiare(e lo fanno); dove vieni ridicolizzato se esci da un’università non prestigiosa, anche se con il massimo dei voti ed osannato se sei l’ultimo di un’università dal nome altisonante; dove ti picchiano per strada perché sei una “maledetta gaijin”, tutti guardano e nessuno muove un dito per aiutarti. Succede pure da noi, direte voi, ma non te lo aspetti se sei bionda con gli occhi chiari, vesti elegantemente e sei in Giappone per spendere, non guadagnare soldi. Ti aspetti che possa venir picchiato un povero disperato che cerca all’estero un lavoro per sopravvivere come un cinese, un indiano o un coreano, i loro maggiori immigrati, che come li ha definiti il governatore di Tokyo(votato dall’87% dei tokyoiti) “non sono esseri umani, ma bestie e noi non vogliamo bestie nel nostro paese”. Odio il Giappone quando esco da una fermata nuova della metro e, avendo perso l’orientamento, chiedo in giapponese se un dato posto sia in una direzione o in quella opposta e fanno tutti finta di non averti né vista, né sentita, come fossi trasparente, sempre perché sei una “maledetta gaijin”. Poi amo quel 13% che hai interpellato mentre è fermo al semaforo su una moto e spegne il motore, porta la moto sul marciapiede e sta un quarto d’ora a cercare sulla cartina perché non lo sa neppure lui(passiamo da un eccesso all’altro e se la prima situazione è frustrante, la seconda è, per lo meno, imbarazzante). Ho scritto “chiedo in giapponese”, non per vantarmi(di vanto ce n’è poco, visto che quando manco dal Giappone per sei mesi, mi scordo pure come si dice grazie e devo ricominciare daccapo con lo studio), ma perché se domandi un’informazione in inglese, per la loro proverbiale timidezza e paura di non rispondere correttamente, è capacissimo che non ti rispondano pure se appartengono a quel 13%(per la nostra cultura è maleducazione). La lista di ciò che odio è ancora lunga, come sentirsi obbligati ad andare a bere coi colleghi di lavoro a fine turno, se è stato proposto, anche se non ti va o a casa hai un familiare malato che ti aspetta con impazienza e poi finire a dormire ubriaco su un marciapiede in giacca e cravatta(l’impossibilità morale di disimpegnarsi); camminare con una gamba storta e il piede verso l’interno per sembrare più piccolina e quindi desiderabile, pure se hai vent’anni(perché… quello che vorrei scrivere lo lascio sottinteso); strillare come matti per attirare i clienti nei negozi(a me fanno scappare); poter entrare nella sede della Yakuza e leggere sulla parete tutto l’organigramma, senza che la polizia, che l’organigramma lo conosce bene e ne ha pure gli indirizzi e i telefoni, ne arresti uno solo…
    Cosa amo del Giappone? Oltre a quel 13% non xenofobo(ricordate che il Giappone si è auto isolato per diversi secoli), che aumenta uscendo dal Kantoo, amo la natura con i suoi colori primaverili, ma specialmente quelli dell’autunno(visitate i giardini Sankeien a Yokohama, aperti una settimana sola all’anno e ve ne innamorerete), i marciapiedi ricoperti di foglie di Gingko come un morbido tappeto di un giallo intenso, i parchi, i boschi, le foreste e l’acqua. Sì, il Giappone non solo è circondato da acqua, ma vanta una moltitudine di fiumi, fiumiciattoli, torrenti, canali e cascate che vi ritrovate ad ogni angolo. Persino nell’industrialisissima Saitama, percorrendo l’itinerario di una delle maratone organizzate dalla metropolitana di Tokyo dove non si corre, ma si cammina con cartina fornita e varie tappe turistiche, tra i vari agglomerati di palazzoni in stile popolare, quasi nascosta, sbuca una cascata circondata da una fitta vegetazione, una delle tante microscopiche oasi di verde che non è stata spazzata via dal cemento. Adoro gli onsen, specialmente quelli all’aperto, con i loro vapori di acque calde che d’inverno sembrano una cortina di fumo. Amo le tradizioni giapponesi, dalla cerimonia del te, alle varie forme di teatro, dall’ikebana al folklore(al teatro di Gion, Kyoto, rappresentano una sintesi delle principali). I grandi alberghi rispettano tutte le tradizioni esponendo quelle che a noi potrebbero apparire delle semplici decorazioni coloratissime e che invece hanno un profondo significato in quel preciso periodo dell’anno. Mi manca il cibo giapponese. Mi manca fare la spesa in Giappone per cucinare in Italia i loro manicaretti.
    La maggior parte dei giapponesi di città non è felice, come non lo ero io vivendo in Giappone(quando non si è felici si diventa egoisti, cattivi ed intolleranti verso gli altri), ma conosco tanti occidentali, anche donne che ci vivono bene e hanno persino sposato un giapponese. Forse sono troppo sensibile e non riesco a sopportare l’arrivismo sgambettando il prossimo, sistema su cui si basa la mentalità giapponese e poi non sopporto la pignoleria e lì si spreca… Se si lavano i pavimenti(ma non bisogna farlo troppo spesso, altrimenti si consumano a dir loro) in un secchio ci vogliono tot litri di acqua e tot grammi di sapone… la lezione di giapponese dovevo impararla a memoria e se nel testo c’era scritto che una signora entrava in un negozio e provava prima una camicetta bianca, poi una gonna blu, apriti cielo se invertivi l’ordine!!! Ho imparato a sentir urlare i “sensei”, che errore imperdonabile il mio di ripetere che provava prima la gonna, blu, mica bianca!!! Certo è che questa precisione crea la disciplina, che noi possiamo solo sognare, ma a che prezzo!
    Insomma, per me ci sono i pro e i contro. Appena diplomata volevo continuare gli studi all’estero, vivere all’estero. Ora che ho vissuto in mezzo mondo, vorrei vivere solo in Italia e andare all’estero, specialmente i Giappone, solo per le vacanze.
    Secondo me il libro citato va letto e un paese si può giudicare solo dopo averci vissuto. Le vacanze non bastano, servono solo ad alimentare i sogni.

    1. Forse volevi solo dire la tua, certo, ma il post è quantomeno fraintendibile in alcuni punti.
      Non mi piace il fatto che sembri da per scontate su di me alcune cose… come l’idea che io non abbia vissuto in Giappone (in homepage c’è scritto che mi sono sposato in Giappone). Sbaglierò, ne sono sicuro (anch’io sono uno molto sensibile, in famiglia mi criticano spesso) però mi trovo costretto a rispondere anche in quest’ottica, per gli utenti che leggendo avessero la stessa impressione.

      Mi spiace, invece, che la tua esperienza con il Giappone sia stata a tratti così dura.
      Devo comunque mettere dei puntini sulle “i”. Per cominciare Ishihara, è ovvio che si parli di lui, fu eletto governatore di Tokyo nel 1999 con il 30% dei voti, da indipendente, nel 2003 con il 70% (stavolta appoggiato però da un partito a vocazione maggioritaria come il LDP), nel 2007 con il 50% e nel 2011 con il 43% (a calare), per poi dimettersi l’anno successivo, appena prima che io arrivassi in Giappone. Ma attenzione, si tratta di percentuali di votanti …che sono una fetta spesso risicata della popolazione, a volte solo del 25%-30% a seconda dell’elezione, in genere intorno al 50% per le elezioni importanti. L’idea che l’87% sia fatto di xeneofobi perché hanno eletto Ishihara è, perlomeno matematicamente sbagliata. Al più stiamo parlando del 35% della popolazione nel suo anno d’oro, il 2003, in cui per altro ottenne tanti voti, si dice, (1) per l’appoggio dell’LDP, (2) per la sua politica ambientalista più rigorosa di quella del governo.. e comunque (3) cavalcando un’ondata di insofferenza verso il governo nazionale in carica, proponendo sempre leggi in controtendenza.
      D’altronde a Tokyo in pratica va a votare solo l’elettorato conservatore (la “sinistra” in parlamento è letteralmente evaporata tra il 2016 e il 2017), in particolare quasi solo anziani (e quindi conservatori). Non a caso dopo Ishihara vinse il commentatore politico Misuzoe …sull’onda della popolarità del suo libro più venduto, l’unico non politico, sulla cura degli anziani e l’oyakoukou di cui parlo nell’articolo.

      Aggiungerei poi che il tuo discorso sulla camicetta e sulle istruzioni per i pavimenti può essere fuorviante per i miei utenti, poiché non è pignoleria né desiderio di imporsi inutilmente (nemmeno fossero tutti caporali di Totò). Da un lato ne farei un punto di grammatica: cosa effettui per primo è un punto importante con la forma in -te, se li inverti non è lo stesso (ah, a proposito di lingua… burrakomin? Burakumin). Dall’altro è questione di sociologia: da occidentale ci si sente mortificati e vessati quando ripresi su qualcosa, sì, certo, ma perché succede? È il loro modo di costruire una certa società e di stare in società: nel microcosmo che è Tokyo (perché altrove è altrove) quelli sono i ruoli di senpai e superiori. La stessa educazione forma prima dei cittadini ubbidienti e solo dall’università riseleziona i migliori e li rieduca a pensare con la propria testa. Come nota a margine… ma in che scuola sei stata? Dove venivi aggredita così dagli insegnanti…? Sono stato in una scuola famosa e gli insegnanti erano lassisti su tutto, a parte la frequenza. Forse c’entra il fatto che la tua esperienza è, presumo, precedente al ’90? O forse intendevi i sensei madrelingua dell’università, perché nel mio caso, a parte una in Ca’ Foscari, erano anche meno portati a imporsi.

      Per finire vengo ai punti critici… Ripeto, ho vissuto in Giappone. Non solo, l’ho studiato. E se dovessi comprare tutti i libri sul tema, considerando che leggo principalmente in giapponese e inglese, oltre che in italiano, mi taglierei le vene. Perché non compro questo libro? Perché una persona probabilmente (in senso statistico) poco informata sul tema ha scritto un libro e (un titolista?) ha provato a creare sensation e spronare le vendite con un titolo del genere… merita la mia attenzione? Probabilmente no, ma a prescindere non mi va di cadere nella “trappola del titolista”.

      D’altro canto, vivrei in Giappone? No, non a Tokyo. Sono venuto via pensando che non avrei voluto crescere mio figlio a Tokyo, ma nel contempo devo anche ammettere che allora non l’avevo ancora capito abbastanza e mi ero trovato in parte ad antagonizzarlo sull’onda di indignazione per argomenti in voga come le microaggressioni. Venendo alle vere “aggressioni”, sono stato vittima di vero e proprio razzismo (a Kyoto) ma sempre di un razzismo dettato dalla paura, per niente aggressivo (cose che ho già trattato qui sul sito). Certo, forse è più difficile vittimizzare un uomo, ma, che posso dire, questa è solo la mia esperienza di singolo individuo …e per parlare in generale bisogna andare oltre l’esperienza dei singoli.

      Infine… Amore-odio per un paese…? Siamo italiani, non è la norma? ^__^;;; Pensa all’esempio della mafia e a Riina che da latitante aveva una casa popolare data dalla regione. C’è un negozio qui dove sto, dove entri e non c’è niente sugli scaffali perché commercia solo in merce rubata, in genere su ordinazione. E se lo so io che sono qui in Sicilia da tre mesi, la polizia non lo sa? In molti casi gli occidentali fanno dei sogni sul Giappone e ne creano un’immagine, per poi cominciare ad odiarlo quando questo tradisce quell’immagine… Ma non è colpa del Giappone. Evitare che ciò accada è uno dei motivi per cui ho creato questo sito tanti anni fa: diffondere un po’ di consapevole cultura, non solo esperienze come tanti su Youtube, su un argomento TROPPO mitizzato. Cosa che penso di aver fatto con questo articolo, che cita vari difetti del Giappone… e mentre leggevo il tuo commento, altrimenti apprezzabilissimo, pensavo “ma non l’ha letto?”, “ma che fa, giudica dal piedistallo?”, “macché dice che ci sono stato solo in vacanza, che alimento sogni?” …Non ti biasimo, c’è tanta disinformazione da far davvero paura, ma comunque un po’ dispiace.

      Concludo davvero dicendo… mi sto interessando alla Cina e al cinese, se devo dirla tutta li amo già. Nessuno può essere cieco di fronte alla situazione della società cinese, ma le due cose, come per il Giappone, sono connesse solo fino a un certo punto. Certo, l’immagine della Cina non è ottima in partenza, per cui non tradirà le aspettative, ma comunque sono certo che la società reale non mi impedirà di appassionarmi, anche perché per appassionarsi non serve scegliere tra amore e odio, né in realtà è necessario amare (o odiare) la società in questione.

  5. Mi spiace tu possa dedurre dal mio intervento un’opinione su di te, che non mi ha minimamente sfiorata. Sinceramente non capisco da quale punto. Ho ammirato immediatamente la sensibilità, la saggezza, la proprietà di linguaggio e la capacità di esposizione di ogni argomento trattato( inoltre l’ottima cultura si ritrova in citazioni bibliche, filosofiche…). Si evince che hai una vastissima conoscenza della lingua e della cultura giapponese, sicuramente maggiore della mia, anche perché ho basato la mia istruzione su altro. Lo studio del giapponese per me è stato solo una parentesi, dal momento che mi recavo in Giappone spessissimo per lavoro. Ho letto molto sul paese, questo sì, ogni libro che ne trattasse che mi sia capitato tra le mani( ci sono i topi da biblioteca, io sono un topo da libreria)e poi lo andavo a verificare di persona. Per questa ragione leggerò volentieri anche il testo segnalato da karuro16. Non sono abituata a prendere per oro colato tutto ciò che leggo, anzi sono estremamente critica. Lo potrò valutare solo dopo la lettura, ma questa è la mia personale opinione. Non intendo, con ciò, che chiunque lo debba leggere. Tra l’altro ho trovato diverse tue considerazioni personali esattamente identiche a quelle che sono sempre state le mie e ciò mi ha recato un certo senso di soddisfazione.
    Si, intendevo burakumin, come intendevo “in Giappone ” e non “i Giappone” e, sicuramente, ci saranno altri errori di battitura o altre parole corrette dal T9 o come si chiama il sistema di correzione automatica usato dai computer, ma non credo che ciò renda il testo meno comprensibile.
    Riguardo ai burakumin potrei scriverci un libro, tanto ho indagato nel paese e tante sono le testimonianze dirette che ho raccolto, ma qui il professore sei te, io mi limito ad esprimere la mia opinione ed è l’opinione di una persona che soffre di “mal d’Asia”, che, come mi è stato detto da un antropologo-psicologo, è più forte del mal d’Africa perché non è viscerale, bensì cerebrale. A quattro anni seguivo con interesse le lezioni di cinese alla televisione. Potrei anche non averci capito nulla, non sto insinuando di essere stata un genio, ma solo che provavo piacere ad ascoltare un argomento che annoiava i miei coetanei e non mi perdevo una puntata. Da allora ho ricercato tutte le informazioni possibili sui paesi del sud-est asiatico e sull’estremo oriente. Nelle Filippine sono stata presa a braccetto da un ergastolano per omicidio e mi sono lasciata condurre nella visita alla prigione, qui in Italia sarei scappata via.
    Non ricordo quando fu che sentimmo in televisione la dichiarazione del governatore di Tokyo, ma ricordo con esattezza che il giorno dopo mi fecero tradurre tutti i giornali in lingua spagnola, portoghese, francese e tedesca sull’argomento e tutti citavano un elettorato dell’87%. Non mi sono mai interessata troppo di politica, ma ho sempre avuto buona memoria per i numeri, riferisco ciò che ho letto. Non ricordo neppure se allora il governatore fosse Ishihara, anche se è probabile. All’epoca c’è l’aveva pure con noi italiani per il colore dell’istituto di cultura italiana che “non si confaceva alla sensibilità degli abitanti della zona” e, se non avessero risolto loro il “problema” ci avrebbe pensato personalmente lui con una ruspa. Alcuni mesi dopo mi sono recata nel suddetto istituto e mi hanno spiegato che il “problema” era stato risolto. Avevano dovuto ridipingere la facciata in una tonalità più chiara.
    Comunque basta leggere su internet quello che scrivono su Ishihara, anche su wikipedia in spagnolo o in inglese, per esempio. In italiano non si trova molto.
    La mia “sensei” era una ex-professoressa universitaria che aveva aperto la sua scuola privata e urlava ogni giorno con me per i motivi più stupidi(ero l’unica alunna nei principianti, purtroppo). Di solito si arrabbiava perché dicevo che il signore in metropolitana aveva preso prima una linea e poi un’altra, invertendole rispetto al testo, o, se recitavo la pappardella nell’ordine giusto, doveva trovare un altro motivo per farmi sentire la potenza delle sue corde vocali, tipo: “Il cliente ha preso l’ascensore ed è andato al settimo piano”. “Ora dimmi: <<è salito>> al settimo piano”. Naturalmente “salire” era un verbo che non avevo ancora incontrato ed erano dolori perché nel tirare ad indovinare non ci avevo preso. Un giorno le dissi che magari ero stupida ed era inutile arrabbiarsi con una stupida, non mi avrebbe fatto diventare più intelligente. Fu la volta che urlò più forte, però fu divertente guardare la sua faccia. Mi aveva così demoralizzata che avevo un blocco nel parlare. Nella vita quotidiana non riuscivo a chiedere neppure le informazioni più semplici. Parlavo solo in inglese, finché non fu un ulteriore atto di xenofobia che mi sbloccò. Avevo tanta rabbia dentro che mentre fumavo una sigaretta dietro l’altra nella zona fumatori, mi uscì un fiume di parole e mi sfogai con il poveraccio che stava fumando accanto a me. Fu molto carino. Non faceva che ripetermi che era inaudito, intollerabile, ciò che mi era successo. A quel gentile, anonimo passante, che restò ad ascoltarmi finché non mi fui calmata, devo il mio esordio con la lingua giapponese.
    Quando abitavo in una gaijin house tutti i miei coinquilini mi avevano raccontato degli episodi di xenofobia da loro subiti. Il professore australiano era stato aggredito alle spalle mentre beveva una birra e, nel tentativo di allontanare l’aggressore, gli aveva strappato la camicia. Arrivata la polizia, il giapponese aveva dichiarato di essere stato lui l’aggredito. L’australiano non parlava giapponese, né la polizia l’inglese. Non ha potuto raccontare la sua versione. Per fortuna è stato rilasciato dopo aver pagato 30.000 yen per la camicia, ma poteva essere arrestato o rispedito in Australia.
    Parimenti potrei raccontare tanti episodi bellissimi che in altre parti del mondo non si sarebbero mai verificati e questo grazie all’amabilità di altri giapponesi.
    Quello che intendevo con il mio intervento era solo di non mitizzare un paese. È giusto conoscere tutti i pro e i contro e non essere parziali solo perché ciò che è esotico, lontano e quasi irraggiungibile ci sembra perfetto rispetto alla realtà che viviamo, quella più vicina, tangibile. Nessun paese è perfetto.
    Poiché hai citato la Sicilia, porterò un esempio banale, per spiegarmi meglio. È talmente forte il mio amore per la Sicilia, che basta che qualcuno mi dica di essere siciliano o di origine siciliana perché già mi stia simpatico, quando pure lì ci sono, come ovunque, persone maleducate ed anche criminali, ma io non lo “voglio” vedere il brutto nella Sicilia, tutto deve essere perfetto. Con il resto del mondo sono più obiettiva.

    1. Purtroppo non avevo capito fossi la stessa persona che mi aveva scritto per email e come me, altri potevano fraintendere, quindi dovevo ribattere su punti che potevano essere equivoci. Io stesso ho sempre spinto a non mitizzare il Giappone, anche in questo post. Ecco perché poteva essere fraintendibile il tuo commento: si poteva leggervi che io ero stato “troppo soft”. Ah, invece, visto che parli di razzismo, ne approfitto per citare un mio articolo in proposito: Portatori sani di razzismo, che vorrei leggessero tutti i lettori di questo commento.
      Distinguerei però tra il “razzismo alla giapponese” e il razzismo aggressivo del tizio che ha aggredito quell’australiano. Oggigiorno ci sono ancora i “singoli episodi”, qualche caso di violenza, ma vanno distinti a mio parere rispetto ad un discorso sul razzismo in Giappone, perché… be’, “bad things happen”. A mio cugino è successa da poco una cosa molto simile a quella che racconti del signore australiano. Nel suo caso si trattava però di un episodio con un cliente che, in breve: lo ha preso a male parole per un po’ di ritardo, ha provato a spaccargli in testa una sedia… e poi ha chiamato la polizia dicendo di essere stato aggredito (sostenuto dalla moglie). Per fortuna si sono fatti avanti altri testimoni. Ma bad things happen, per l’appunto, i pazzi ci sono ovunque, può essere che un giapponese se la prenda con un australiano, può essere che un siciliano se la prenda con un altro siciliano.

      Inoltre anche a Tokyo secondo me la situazione è cambiata. Gli episodi di razzismo che ho subito sono stati tutti a Kyoto e dintorni (e parlo di 4-5 casi in 2 settimane appena!) mentre a Tokyo in un anno e mezzo, niente, zero. A Kyoto la gente sul marciapiedi magari vede un gaijin e lo scansa, a Tokyo piuttosto che scansarsi lo urta. Viceversa un ragazzo a Tokyo mi ha sorpreso cedendomi il posto sul treno quando ha visto che studiavo kanji in piedi… perché io avevo più bisogno di sedermi …mi ha perfino ringraziato perché studiavo giapponese.
      Il razzismo Tokyoita di recente si è forse concentrato sui cinesi e altri stranieri del sud-est asiatico. Un mio compagno di classe è stato fermato non so quante volte dalla polizia per dei controlli (essendo palesemente cinese), nessun occidentale che ho conosciuto nella mia scuola invece era mai stato fermato.
      Gli expat occidentali che oggigiorno vivono in Giappone non trovano nulla di meglio che gridare alle “microaggressioni” (“imperdonabili” complimenti come “sei bravo con le bacchette”), soprattutto per via del fatto che ancora non hanno capito molto del Giappone …Perché citare le microaggressioni? Perché suppongo che se ci fossero “aggressioni di dimensioni normali” concentrerebbero più che altro su quelle. Può essere che sia ancora molto difficile per persone di colore, musulmani, indiani… ma non penso ci sia più da temere episodi tipo quello della “maledetta gaijin” per chi è bianco… il che è positivo, ovviamente, e triste al tempo stesso.

      Mi dispiace poi davvero molto per quel che ti ha fatto passare la tua insegnante che dovrebbe ricevere il riconoscimento di peggior insegnante al mondo… e pure come semplice essere umano si qualifica benissimo. Si dice che “Non ci sono cattivi studenti, solo cattivi insegnanti” …non è vero, se uno studente non studia è un cattivo studente, ma se uno studente non capisce allora è l’insegnante che è un cattivo insegnante, questo sì, senza dubbio.

      Mi fa piacere che ci siamo chiariti comunque. Se per te va bene possiamo chiudere qui il discorso, sennò ci allontaniamo sempre più dal tema del post.

Fatti sentire!

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