Andiamo avanti con le analogie da film con l’articolo di oggi: Capire il Giappone 2, la vendett… ehm… Le regole della società giapponese.

Da oggi vedremo infatti Le 5 regole fondamentali della società giapponese. Be’, è solo per dargli un nome accattivante, perché non sono ovviamente solo cinque! Certo è però che questi sono alcuni degli aspetti più caratterizzanti (e alcuni ben poco conosciuti e/o pubblicizzati) della società nipponica.

Avevo previsto un singolo articolo per tutte e cinque le regole in questione, ma è venuto così lungo che ho dovuto per forza si cose spezzarlo in articoli più brevi. Tenete quindi presente che questa “rubrica” ci terrà compagnia per un po’. Volendo la ritroverete nella pagina di Cultura e curiosità.

Tutto ciò, ve lo ricordo, nasce dall’ultimo articolo, Missione Impossibile: Capire il Giappone. Vi avevo promesso infatti che avremmo visto quelle regole della lingua che ci permettono di capire le convenzioni, le usanze, quegli aspetti poco noti della cultura giapponese che ho chiamato “Le regole del gioco” e, ovviamente (ma questo è un nostro grande classico) il loro legame con la lingua giapponese, come, in un certo senso, studiando la lingua possiamo arrivare a scoprire, intuire …e a volte perfino capire queste “regole non scritte”, che sono di enorme importanza per chiunque voglia vivere in Giappone o comunque capirlo un po’ più a fondo.

Prima di cominciare però devo chiedervi di andare a dare un’occhiata al precedente articolo …anche se lo avete già letto! Sappiate infatti che c’è stata un’importante modifica per includere l’agghiacciante e ridicolo reportage de Le Iene su Akihabara (la trovate al punto 1).

Ma lasciamo stare il giornalismo in stile Mediaset e veniamo a cose serie.

Vorrei partire chiarendo come possa affermare che per mezzo della lingua si può studiare la cultura di un popolo. Dirlo è facile, e suona convincente, ma di che si tratta in concreto? Come fa la lingua a influenzare la cultura. Innanzitutto è bene chiarire che lingua e cultura non sono concetti slegati, anzi.

Il rapporto tra lingua e cultura è praticamente inestricabile. In una si riflette l’altra. La cultura, come insieme di conoscenze di ogni tipo trasmesse di generazione in generazione, comprende la lingua, ma la lingua è il mezzo con cui queste conoscenze sono trasmesse, quindi senza lingua non ci sarebbe cultura.

Anche se la lingua è un mezzo e in quanto tale tende a riflettere la cultura del popolo che la usa (perché funzionale alle idee che quel popolo vuole esprimere, al sentire comune), è innegabile che, come in una sorta di circolo vizioso, anche la lingua tenda alla fine a plasmare la cultura.

In Giappone un esempio di questo fatto è dato dal keigo. Per via della peculiare cultura si è sviluppato in Giappone un linguaggio quasi-parallelo a quello comune, che usa verbi e sostantivi diversi e frasi molto più complesse e vaghe per esprimere gli stessi concetti.

Un esempio di keigo come “linguaggio quasi-parallelo” lo abbiamo visto parlando delle espressioni di volontà, hoshii e la forma in -tai: abbiamo accennato al fatto che non si usano se dobbiamo un certo rispetto a chi ci ascolta.

Dal nostro punto di vista il keigo è, tutto sommato, solo un modo di “parlare difficile”, certo, necessario, così ci dicono, ma sostanzialmente solo questo. Qualcuno potrà poi non apprezzare il modo di “svilirsi” di fronte a una persona più importante.

Ecco quindi un caso in cui la lingua plasma la cultura: chi sa parlare usando il keigo è giudicato, specie dai più giovani, tutt’altro che “servile” (o “leccapiedi”, per esser più chiari), come forse potremmo azzardarci a dire noi occidentali: invece è considerato “figo”!

L’uso di quel linguaggio “parallelo” e compesso che è il keigo ha quindi influenzato la percezione che le persone hanno di chi lo usa. Sia chi lo ammira che chi lo usa spingerà il figlio ad impararlo e questi crescendo sarà ammirato da altri che spingeranno i figli ad impararlo… e così via. Ecco quindi un esempio di influenza della lingua sulla cultura.

È più semplice, invece, accorgersi di come la cultura tenda a plasmare la lingua. Inutile dire che se in una cultura un concetto è importante, qualcuno inventerà una parola per esprimerlo. L’esempio che sicuramente preferisco è quello della parola 近所迷惑 kinjomeiwaku, che in italiano dobbiamo rendere con una lunga espressione “il fastidio provocato ai vicini”.

Inutile dire che in Italia ci importa ben poco di dar fastidio ai vicini (ecco perché stamattina sono stato svegliato alle 6 da una lite al di là del muro), ma in Giappone non è così, per questo hanno una parola per questo concetto.

Cosa? Vorreste un altro bell’esempio (meno polemico)? Certamente! Parliamo allora di 舞い落ちる maiochiru rende il “cadere danzando” (è la traduzione letterale) dei petali dei fiori (di ciliegio) che quando cadono, non lo fanno certo come tutti gli oggetti, in linea retta, no, disegnano particolari e imprevedibili circonvoluzioni nell’aria, ma con un loro ritmo, quasi questi petali danzassero… C’è bisogno di far notare come nella cultura giapponese i fiori, specie di ciliegio, siano più importanti che nella nostra? Devo forse ricordarvi che hanno una festa detta 花見 hanami, ovvero “guardare i fiori”, dedicata proprio alla contemplazione dei ciliegi (e, siamo onesti, alla birra)?

Bene, ora che abbiamo dimostrato come lingua e cultura siano legate a doppio filo (perché una influenza l’altra), passiamo oltre e vediamo cosa può insegnarci la lingua sulla cultura giapponese.

1. Prima regola: il gruppo prima del singolo

Avete presente le parole di London, “Nessun uomo è un’isola” (per chi ha visto About a boy: “Invece sì, io sono un’isola. Io sono quella ca**o di Ibiza!”). Ecco, in Giappone quest’idea – non quella di Hugh Grant in About a boy, eh! – l’idea che nessuno possa farcela da solo, l’idea che nessuno vive in totale autonomia e indipendenza dagli altri, viene portata all’estremo. L’individuo è un elemento non inesistente, ma trascurabile all’interno del gruppo. E il gruppo a sua volta è all’interno di un altro gruppo, che è all’interno di un altro gruppo e così vià, fino al gruppo più grande, ovvero “i giapponesi” (forse avrete pensato a “gli Uomini”, ma per i giapponesi di norma è molto forte e radicata l’idea che esistono solo due nazionalità: “giapponese” e “non giapponese”).

Il primo gruppo è la famiglia e gli interessi del singolo cedono il passo di fronte a quelli della famiglia. Ecco perché in Giappone, per esempio, il matrimonio è qualcosa che si fa, in minima o in massima parte, a seconda delle persone, per la propria famiglia.

Un esempio di come il “gruppo famiglia” prevale sull’individuo è dato dagli お見合い omiai, cioè incontri combinati dalle famiglie con l’esplicito scopo di far sposare i propri figli.

Attenzione. I moderni omiai giapponesi sono diversi dagli accordi matrimoniali che esistevano un tempo anche qui e che avevano un interesse economico. Salvo le dovute eccezioni le persone partecipano agli omiai perché la famiglia vuole vederle “accasate”: si tratta di matrimonio fine a se stesso, in cui cioè che conta non è il sentimento di chi si sposa, ma il desiderio dei genitori.

Perché i figli sottostanno a tutto ciò? Per colpa di Confucio (che citiamo spesso come un saggio, ma ha inconsapevolmente fatto enormi danni in mezza Asia), perché un bravo figlio deve fare quella che è detta 親孝行 oyakoukou. L’oyakoukou è la “pietà filiale” …e subito vi rendete conto che pur avendo un termine anche in italiano, (1) non è una parola unica e (2) è ormai in disuso, perché non proprio parte dei valori occidentali.

Purtroppo l’oyakoukou è un concetto molto particolare, con un lato positivo e uno negativo, che spesso è strumentalizzato negativamente e a volte usato positivamente… per cui ne parleremo meglio in un’altra occasione.

Ok, per oggi è tutto. La prossima volta vedremo la seconda regola del fight cl- …ehm, della società giapponese 😉

6 thoughts on “Capire il Giappone – La prima regola della società giapponese

  1. Quelli che leggono manga verrebbero influenzati? Dunque Attila a quanti giochi violenti ha giocato scusate?
    Passando a qualcosa di meglio …
    Avrei due domande per Kaze a cui forse risponderà, nei prossimi articoli, ma per ora le posto qui.
    Quando si parla di società verticale si intende l’idea del gruppo inserito in un altro gruppo ecc.? Oppure sono del tutto fuori strada?
    Per quanto riguarda il caro Confucio, il fatto che il figlio ubbidisca ai genitori è davvero un qualcosa di così rigido anche oggi o sta cambiando?

    1. La società verticale sarà argomento di post futuri, comunque, no, il punto non è quello.
      Il potere dei genitori sui figli era più forte in passato, specie in Giappone, ma (salvo eccezioni, es. gli hikikomori) è comunque ancora presente.

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