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Cultura – Portatori sani di razzismo

Piccolo edit: La nota di scuse che era a inizio articolo è stata spostata alla fine, perché non penso vi interessi la mia vita privata, al di là del fatto che all’epoca avevo rallentato il ritmo di uscita degli articoli.

Veniamo all’articolo… in realtà poco più di una semplice considerazione, che però colpisce – o dovrebbe colpire – in modo significativo.

Ho parlato altre volte della diversa veste sotto cui si cela il “razzismo alla giapponese”. Al contrario di quello cui siamo – tristemente – abituati in Italia e un po’ in tutto l’Occidente, il razzismo giapponese non ha uno sfogo nella violenza in genere, è più assimilabile a una generica paura dell’ignoto, condita a volte da qualche strepito, specie in campagna elettorale… vero Ishihara-san?

Penso soprattutto ad alcune cose che mi sono successe, come ritrovarmi su un treno affollato, pieno di gente in piedi, dove gli unici posti a sedere vuoti sono a sinistra e a destra di dove siamo seduti io e mio fratello.

O ancora a quando camminiamo per la strada e due salaryman (impiegati, riconoscibili dal completo “di ordinanza”) ci hanno incrociato, in occasioni diverse, mentre camminavamo sul marciapiedi… In tutte e due le occasioni la scena è stata (quasi) la stessa. Provate a immaginare. Kyoto, via principale che si diparte dalla stazione verso Nord, molto, molto grande. Marciapiedi largo svariati metri, io e mio fratello che camminiamo nel centro e un salaryman sulla trentina che viene in direzione opposta. Alza gli occhi quando è a qualche metro, incrocia il nostro sguardo (tenete presente che non siamo fisicamente minacciosi: era più alto lui) …e devia velocemente verso il muro, nel modo più plateale che mi riesce di immaginare. Dopodiché, e gli sta bene, mette un piede in fallo perché vicino al muro c’è uno scolo dell’acqua e finisce per sbattere la spalla e la mano sul muro.

Ora io mi chiedo: ma quanto bisogna essere razzisti per vedere dei turisti, macchine fotografiche al collo e pantaloncini corti, e sentire il bisogno di mettere almeno due metri tra te e loro… Senza accontentarsi di 1 metro e 80 cm di distanza, per carità! No, bisogna arrivare a strisciare al muro! Oppure, come ha fatto l’altro salaryman in un’altra occasione, andare dall’altro lato, scendere dal marciapiede… per poi risalire non appena superati gli stranieri in questione. Non si sa mai avessero la peste. O contrabbandassero droga nascondendola nelle macchine fotografiche.

Datemi un secondo che solo a ricordare sento il bisogno di un facepalm…

Ok, ora va meglio, grazie.

Quello visto finora, però, è il razzismo “manifesto”, quello espresso con le azioni. Come vedete per nulla violente. Qui lo straniero verrebber guardato male, qualcuno potrebbe cedere alla tentazione e passare alla violenza in certe situazioni… è successo, ma quello che si sperimenta in Giappone è un razzismo più “sottotono”, fatto più che altro di paura, si direbbe. Ma si tratta comunque di sintomi manifesti di quella malattia della società che è il razzismo.

Va poi anche chiarito che ho incontrato persone splendide… Ricordo un paio di signore di mezza età, che hanno perso tempo a darci indicazioni precise perché potessimo godere al meglio della nostra visita, trovare i posticini più interessanti… O anche solo chi voleva fare conversazione in inglese e senza paura ci ha rivolto la parola, ragazzini, casalinghe…

Ad ogni modo, chiusa la parte sul “razzismo manifesto”

C’è poi un “razzismo inconscio”. Non è manifesto, non richiede azioni per esprimersi, è culturale, perché “ufficialmente accettato”, anzi, è perfino istituzionalizzato, per così dire.

Molto probabilmente (a me è successo), iscrivendovi in una qualunque scuola di giapponese vi verrà detto a chiare lettere: comportatevi bene perché qui siete “rappresentati del vostro paese” (自分の国の代表, jibun no kuni no daihyou).

Personalmente andando all’estero cerco di comportarmi nel migliore dei modi, non solo perché è giusto e dovuto ovunque uno si trovi, ma anche perché, dato che so che c’è chi la vede in questo modo, sicuramente il mio comportamento si rifletterà sul buon nome del mio Paese… concetto che da tempo sfugge a politici, ben più in vista di me e legati a doppio filo al nome dell’Italia, dai capelli magicamente rinati fino alla punta delle dita… quando fa le corna.

Tuttavia comunque mi comporti, si tratta solo del mio comportamento, un comportamento da me scelto. Io, come individuo, preferisco evitare di fomentare i pregiudizi della gente… altri no. Ho visto certe cose e sentito alcune storielle su “gli italiani in Giappone” che… non fatemi parlare, ma dico solo: chi nel 2010 è andato al Museo della Katana a Tokyo tanto per far caciara, si vergogni, per cortesia, e poi torni all’asilo.

Ad ogni modo, la mia scelta come individuo non ha però a che fare con cosa è giusto, logico e socialmente accettabile.

È giusto dire “comportati bene”. Possiamo anche dire “comportati bene perché molta gente, vedendoti comportarti male, penserà che tutto il tuo paese sia un paese di cafoni”. Ma non possiamo dire “comportati bene perché sei un rappresentante del tuo paese” perché equivale a dire “giudicherò il tuo paese (l’intero popolo) da come ti comporti tu”: ciò significa giustificare e abbracciare un comportamento che è per definizione razzista.

Invece qui questo è il pensiero dominante, questo così “splendidamente espresso”; a dirla tutta probabilmente potremmo perfino sentirci lusingati a sentirci dire una frase del genere: inevitabilmente ci si sente un po’ degli “ambasciatori”, no? Figo! Ruolo di rilievo, nulla da dire, ma meritato? È meritato per noi? E per l’Italia?

Esageri! – dirà forse qualcuno – Dov’è il razzismo in una frasetta così?

A ben vedere questa frasetta è una perfetta definizione di razzismo, perlomeno davanti alla Legge: razzismo, infatti, equivale a “ritenere un gruppo etnico responsabile delle azioni di un singolo individuo”. È molto semplice. Se un albanese mi rapina, non posso dire: “gli albanesi sono dei ladri”. Non conosco tutti gli albanesi, no? Con una simile affermazione coinvolgo un gran numero di innocenti.

Questo tipo di mentalità è dura a morire e si riflette nella nostra vita di tutti i giorni, quando vediamo un comportamento fastidioso, nella vita come in un film, e diciamo “i cinesi sono…”, “gli americani fanno sempre…”, “i francesi non sanno…”. Io stesso finisco fin troppo spesso per dire “i giapponesi ecc. ecc.”. Diciamocelo, è “comodo”, specie se non parlate d’altro, come me.

Certo, possiamo nasconderci dietro un dito e dire che “no, so che non riguarda tutti, intendevo riferirmi alla maggior parte” …o cose del genere, liberi di fare come ci pare, ma ha senso mentire a se stessi? In fondo è un istinto umano, negarlo non ha senso, cercare di superarlo è un comportamento meritorio; cominciamo con l’ammetterlo.

Però una cosa sono le nostre piccole debolezze umane, un’altra cosa è agire in base a certi istinti (il “razzismo manifesto” di cui parlavamo più su), un’altra cosa ancora è propinare questo “razzismo culturale” e istituzionalizzato, perché nel mio caso a propinarlo è stata una scuola.

Per questo nel titolo parlo di “portatori sani di razzismo“: in questo “razzismo culturale” non c’è azione corrispondente, la malattia non si “manifesta”, e chi ne è affetto non si rende assolutamente conto che quel che dice è qualcosa di razzista, ma è così!

自分の国の代表 jibun no kuni no daihyou, “Rappresentante del proprio paese”? Ma dicendo così giudichi un popolo dalle azioni di un singolo e questo è razzismo!

国民性 kokuminsei, “personalità di un popolo”? Ma usando una parola del genere giudichi un singolo dalla semplice idea che hai di un intero popolo e questo è razzismo!

E per di più queste qui sopra non sono le idee di pochi individui, sono un fattore culturale condiviso, considerato perfettamente naturale, tanto che viene insegnato nelle scuole (di giapponese)… Stiamo scherzando? Stiamo dando i numeri?

Lo so, forse a qualcuno sembreranno piccolezze, un peccato veniale, ma il fatto è che non ne vediamo le dimensioni, l’effettiva sconcertante enormità. Posso accettare che ci siano stati episodi di razzismo come quelli che vi ho descritto (anzi, ve li raccomando! Dovete provare almeno esperienze del genere per capire davvero cosa significhi essere straniero e avere una vaga idea di cosa sia il razzismo!). Quello che non posso accettare è che si insegni il razzismo.

Ne parlavo con la mia ragazza, poiché quest’idea è ben radicata, in generale, ed è “pensiero ufficiale”, accettato socialmente, in Cina come in Giappone …e credo in una vasta parte dell’Asia, almeno a sentire quel che dicono le mie compagne di classe vietnamite e tailandesi.

Parlandone con la mia ragazza, dicevo, le ho fatto un esempio molto chiaro per chi, come lei, non chiude gli occhi davanti a pregi e difetti delle persone quando guarda al proprio paese, dall’interno o dall’estero.

I cinesi in Giappone hanno la fama di sputare per terra. “È vero”, mi ha detto lei, “i cinesi lo fanno!”… forse dimenticandosi di essere cinese e di non averlo mai fatto. “Ma guardiamo ai fatti…” – le dico – “Hai visto delle persone, presumibilmente cinesi, tenere un comportamento discutibile, sputare per terra… e hai allargato il concetto a tutti i cinesi. Ma anche tu sei cinese, non fai cose del genere, e anzi il tuo comportamento è, non solo impeccabile… ma spesso ricco, nei modi e nei gesti, di atteggiamenti cortesi, sinceramente gentili, spesso davvero kawaii”.

Aveva già capito, ma io amo troppo il suono della mia voce per non continuare: “Vedendo tutto ciò, io cosa dovrei pensare? Se è la prima volta che incontro un cinese e vedo te, secondo questo modo di pensare è giusto che io pensi che tutti i cinesi sono carini, ben educati e fanno dei gesti così kawaii che sembrano usciti da un anime… Attenzione, questo vale anche per i cinesi che effettivamente sputano per terra ogni tre passi. Se invece il primo cinese che incontro è uno che sputa per terra e il secondo sei tu, secondo questo modo di pensare dovrei giudicarti male in partenza, aspettandomi che ti metta a sputare a destra e a manca da un momento all’altro”.

Spero sia chiaro a tutto perché quando siamo all’estero dobbiamo comportarci in modo opportuno, non solo in quanto persone civili, ma addirittura come fossimo rappresentati… ambasciatori del nostro paese.

Ma questo perché sappiamo che c’è chi sbaglia e ha questa visione razzista, per cui giudica un popolo dalle azioni di un singolo, non perché sia giusto giudicare in questo modo.

Comportiamoci pure da “ambasciatori”, ovunque siamo, ben venga! Ma sia chiaro che abbiamo il diritto di non essere visti come tali e che chi ci vede così, sbaglia!

…e non dimentichiamoci che oltre i diritti ci sono i doveri e ci spetta allo stesso modo il chiaro dovere di non vedere gli altri stranieri come rappresentati del proprio paese, ma come semplici individui. Sempre che non rivestano ruoli istituzionali, come la Presidenza del Consiglio ( ´,_ゝ`)

EDIT: Ho spostato qui sotto la nota di inizio articolo.

Innanzitutto le mie scuse. Vi chiederete perché tanto tempo sia passato dall’ultimo post. In breve, da un lato c’è il JLPT, a brevissimo… ma questo non mi ha mai fermato, giusto? ^__^  Dall’altro ora sto con una ragazza… no, non è giapponese, rifuggo gli stereotipi dell’italiano in Giappone: è una compagna di classe, cinese, della mia scuola di giapponese. Poiché è tutto quel che non mi aspettavo dalla vita, che non sapevo nemmeno di volere o di poter desiderare, poiché incarna tutta la bellezza che abbia mai visto e vissuto, poiché rispecchia il mio ideale di donna e i miei ideali di uomo, ogni momento passato lontano da lei sa disperatamente di momento perso per sempre.
Se la metto così, penso, spero, sia chiaro come sia possibile che stiamo già convivendo e come non abbia tempo che possa o voglia dedicare al sito… salvo in momenti come questo, quando lei lavora e io voglio una pausa dallo studio. Per un po’ abbiate pazienza.

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