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Un mese da incubo (in soli 10 giorni)

Woman watches a JAL aeroplane taking off behind an ANA aeroplane at Haneda airport in Tokyo

Come NON disse mai Mozart: “I’m Bach”. Sì, perché, ragazzi miei, sono rientrato da pochi giorni; atterrato a Malpensa ho potuto baciare l’italico suolo. Per farlo ho dovuto cercare un quadratino di terra libera da gomme, mozziconi di sigarette e feci canine, ma «Cosa non si farebbe noi per il “Bel paese”!?» …giusto?

Il trasloco

Cosa c’entra quanto scritto più su con il titolo? Niente.

Ho dovuto organizzare un vero e proprio trasloco da lì a qui, con le cose che io e mia moglie avevamo accumulato in un anno.
In aggiunta alle valigie portate a mano con noi ho spedito 13 scatole. 13. Tredici. T R E D I C I .

…e manco posso essere sicuro che mi arriveranno mai, perché le Poste, si sa, sono le Poste (mi scuseranno i lettori che lavorano in Poste: ormai la verità e il pregiudizio sono inestricabilmente legati, nessuno penso possa dare un parere oggettivo in merito e io ci gioco un po’ su, perdonatemi).

Dunque, se è pur vero che il pacco parte con Japan Post (sono fantastici, sono venuti loro a ritirare tutto a casa, portandomi pure le scatole e mezzi vari per chiuderle e bloccarle bene), è anche vero che è con “Poste italiane” che poi quel pacco arriverà (o NON arriverà) qui in Italia, a casa mia. E la cosa mi sta tenendo in ansia.

Ma per ora è finita. O almeno è finito il trasloco. (Eh, be’, ovvio! Hai detto che sei tornato in Italia… – penserete voi).

E il naufragar m’è amaro in questo mare (di burocrazia)

Rientrato qui ho avuto l’amara sorpresa-non-sorpresa della complessità della burocrazia italiana. No, vi prego, non affrettatevi a prendetemi per ingenuo.

Ricordate che ho un anno di Giappone alle spalle. In un anno si fa in tempo a cambiare abitudini dure a morire: bastano 6 mesi di norma. Perfino i nostri sogni cambiano “ambientazione” in un tempo simile (iniziate a sognare la nuova casa, dopo un trasloco).

Ad ogni modo, torniamo a noi. Come prima cosa ho scoperto che il matrimonio registrato in ambasciata e comunicato al mio comune di residenza “in brevissimo tempo” (è bastato solo un mese!) non era ancora stato registrato nel suddetto comune (a volte serve anche un anno, mi dicono, e io pretendevo che in sette mesi fosse tutto fatto?! Ma che sciocchezzuole vado mai dicendo!?).
Dunque, immaginerete, punto primo: obbligarli a registrare l’atto.

Chiudiamo un occhio – un intoppo o due possono capitare – e passiamo oltre.

In Giappone entravo da studente straniero; all’aeroporto ho dato un modulo per chiedere di poter lavorare anche in Giappone. Quindi sono andato in Comune (c’erano due settimane per farlo) e lì ho chiesto la residenza. Mi avevano concesso il visto per quel motivo, era ovvio concedermi la residenza al volo. Tempo di attesa e formalità, circa un’ora e sono uscito dal Comune con la mia 在留カード zairyuu kaado (o “resident card”) e anche l’assicurazione sanitaria. La prima carta vale da permesso di soggiorno E carta d’identità, è legata all’iscrizione anagrafica e, se a questa si somma l’assicurazione, non avete bisogno d’altro per vivere in Giappone (con questa non dovete più esibire nemmeno il passaporto).

Potete immaginare cosa tocca fare invece a mia moglie per avere la stessa carta di soggiorno/residenza? Piccolo suggerimento: non potete. E dico “non potete” perché è impossibile che mente umana arrivi a concepire un simile abominio. Per darvi vita, difatti, è stato necessario un lavoro di concerto (generazione dopo generazione) e secoli e secoli di strati di burocrazia sedimentata su altri cumuli di burocrazia.

Mah, vi dirò… Secondo la legge (che ho cercato e letto) le cose sono un filo più semplici della pratica. La legge infatti parla chiaro (e c’è una recente sentenza di tribunale a riprova) e dice che dopo tre mesi di soggiorno “informale” (solo col visto), mia moglie è tenuta a richiedere la carta di soggiorno (che non ha scadenza). Punto.

Poi però esiste “la prassi della questura”, la quale consiste nell’incasinare le cose e dare versioni diverse da impiegato a impiegato.

A prescindere dalla legge, mia moglie deve richiedere subito un permesso di soggiorno (entro otto giorni, ma ne servono 25 per averlo), valevole solo due anni, e non può avere una carta di soggiorno perché io non ho reddito (notare che chi ha vissuto all’estero torna ovviamente senza un lavoro e senza aver dichiarato reddito nell’anno precedente). Il permesso poi dovrà essere rinnovato due volte o non esserlo (a seconda dell’impegato) prima che io possa ottenere per mia moglie la carta di soggiorno (o non ottenerla qualora non abbia ancora reddito, cosa che porterebbe all’espulsione di mia moglie… secondo un terzo impiegato), posto che lei superi (o non superi, a seconda dell’impiegato) un test di italiano.

Tutto in barba alla legge che ovviamente non lega i diritti di una famiglia al reddito perché è una discriminazione (men che meno alla lingua parlata in famiglia).

Non aver avuto reddito in Giappone l’anno precedente al mio arrivo lì (cosa ovvia, se sei appena arrivato), mi ha ridotto il costo dell’assicurazione da 400 euro a meno di 100, qui invece mi fa perdere dei diritti… Ma pazienza, procediamo.

A questo punto probabilmente devo registrarne la residenza, mi dico (perché ovviamente ogni impegato non mi sa dire nulla: conosce il fondo del pozzo e nulla del grande oceano… ma non biasimo nessuno, d’altronde non è umano sapere tutto il necessario sui tanti problemi possibili in materia).

Dunque provo a chiedere la residenza, ma… non posso: mi serve un codice fiscale. Vado all’agenzia delle entrate per chiederlo, ma l’ha già creato la Questura, in sordina… Che efficienza! – penso per mezzo secondo netto, poi però scopro che hanno sbagliato indirizzo e codice postale.
Pazienza, per ora ho il codice, poi tornerò un altro giorno all’agenzia delle entrate per cambiare i dati “che oggi non si può”.

Con il codice posso inoltrare la richiesta per la residenza e ottenere così un appuntamento… per non so bene cosa.
– Un secondo, signora, quando è il primo posto libero?
29 maggio.
Due mesi secchi.
– Si può fare prima?
Puoi fare una raccomandata, ci metti il certificato di matrimonio, i moduli…
E ok, facciamo la raccomandata.
– Poi cosa succede?
Ti viene il vigile a casa a controllare che viviate lì, insieme.
– Mi pare giusto… (ormai non penso più a quel che dico, ricevo come un sacco da boxe)
Il vigile le fa delle domande…
– Ma mia moglie non parla italiano, né inglese: comunichiamo in giapponese…
Ah. Eh, be’, in qualche modo faranno, immagino.
– Mi pare giusto… (come sopra). E poi?
– Se tutto va bene, la pratica prosegue (ormai è così grande che ha imparato a camminare evidentemente) e lei può chiedere la carta d’identità.

Quindi, avendo incassato permesso di soggiorno, codice fiscale, iscrizione anagrafica, carta d’identità… posso chiedere l’assistenza sanitaria e SE NON CAMBIA LA LEGGE (parola d’ordine in metà dei posti dove sono stato) è finalmente finita.

Abituato al Giappone, all’inizio, avevo un diavolo per capello. Pensavo ai nostri diritti violati, alle interminabili file e trafile da fare, ai tempi biblici che tutto ciò richiede e a come rispondere alle domande di mia moglie che mi chiedeva continuamente “Bisogna fare ancora qualcosa?!”… Pian piano, anche grazie ai miei e al loro continuo riportarmi alla realtà (italiana), sono rientrato in quell’alveo di abitudine e rassegnazione in cui ci siamo accoccolati da secoli, noi italiani, noto ai più come “È così, che ci vuoi fare?”.

E ora? E ora va un po’ meglio. Memore di quel che è il Giappone non posso certo far finta di nulla o pensare (fingere?) che tutto sia normale, ma posso fare un’altra cosa che a noi italiani viene benissimo: la prendo sul ridere ( ̄▽ ̄;)

Detto ciò… appena mi sono ripreso, ricominciano gli articoli: ho voglia di rituffarmi in qualcosa e scordare questo mese che… Eeeh?! Erano solo 10 giorni?! Sembravano molti, molti di più!.

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