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Domande – Giappone: inferno o paradiso?

Da una domanda di karuro16

Ciao Riccardo, spulciando nella “libreria giapponese” di Firenze mi ha incuriosito un libro che ho acquistato e letto: “Giapponesi poverini!” di Lio Giallini. Curioso sottotitolo: “il sistema nipponico, ovvero la ricetta dell’infelicità”. (…) Il libro mi ha irritato sempre più via via che lo leggevo, e mi domando se sia solo una raccolta di luoghi comuni (…) o una amara e veritiera descrizione di una realtà invivibile e inaccettabile. Ti chiedo se lo conosci e nel caso cosa ne pensi.
Il Giappone che tu ami e quello descritto nel libro sono lontani anni luce
, e il contrasto fa sorgere molte perplessità.

Se altri sul sito lo hanno letto e hanno esperienze dirette di vita in Giappone mi piacerebbe sentire la loro opinione.

E’ vero e falso al tempo stesso. Il fatto è che l’autore, sospetto, valuta dal suo punto di vista di occidentale e sicuramente (giudico dalla conclusione) definisce la felicità come faremmo noi.

Se un “occidentale tipico” vivesse come un giapponese in tutto e per tutto (poniamo per assurdo che il suo volto non lo “smascheri”), quindi con la sua sensibilità di occidentale ma partecipando alla vita della società giapponese con tutti gli oneri che questa comporta… non sarebbe felice. Ma ciò sarebbe il giudizio finale secondo la propria sensibilità, secondo la propria idea di felicità (oltre che, probabilmente, un giudizio dettato anche da aspettative troppo alte e ovviamente tradite).

Non tutti però concepiscono la felicità allo stesso modo.

E, sfortunatamente (o forse no?), non tutti concepiscono il Giappone allo stesso modo.

È facile rendersene conto se una volta tanto guardiamo fuori dai confini del nostro mondo di occidentali, con le sue radici greco-romanico-cristiane con un tocco di barbarie e protestantesimo a chiazze. In Oriente in generale si valuta la felicità, ma anche i valori, i sogni ecc. in modo completamente diverso.

Si possono fare esempi precisi. Partiamo dai sogni, ovvero (per noi) le aspirazioni che una persona ha, nei confronti di una vita e di un sé stesso migliore. Il vostro sogno potrebbe essere studiare giapponese, andare in Giappone, ecc. e senza dubbio muoverete almeno qualche passo in questa direzione. Andrà diversamente forse, ma ci proverete.

Sia in Cina che in Giappone, invece, un sogno è qualcosa che si ha ma non si proverà mai a realizzare. Deve restare tale, non chiedetemi perché. È più un argomento di conversazione che un’ambizione personale. E comunque il sogno è sogno, l’antitesi della realtà: le due cose non possono incontrarsi, possono solo collidere e fare danni.

Altro punto. L’idea di andare avanti soffrendo e sopportando (lett. “mangiare sofferenza” in cinese) è la virtù più grande insieme alla 親孝行 oyakoukou, “pietà filiale”, (che gli occidentali spesso nemmeno sanno che esiste come parola).

Non ovunque il sorriso è dimostrazione di gioia, ottimismo, serenità eccetera. Chi ricorda i devastanti tsunami di alcuni anni fa, sia in Giappone che nel Sud-Est Asiatico, ricorderà anche quanta gente sorrideva anche di fronte a un immane disastro e ricorderà come i giornalisti parlassero della loro forza d’animo… senza sapere che intervistati da una tv i Giapponesi (e non solo), sentendo tutta la propria miseria messa a nudo, sorridono per nascondere il proprio imbarazzo.

Un documentario ha raccontato la storia di una madre che ha cercato sua figlia per quasi due anni (anche scavando, letteralmente, con le sue mani) per poi vedersela finalmente restituire dal mare ridotta a un semplice torso… ma mentre raccontava piangeva e sorrideva. Provava imbarazzo nel mostrare il proprio dolore e la propria disperazione, punto. Non lo faceva “perché conservava l’ottimismo”, come si è detto per il Sud Est Asiatico. Non lo faceva per via della sua grande forza d’animo, come si è detto dei Giapponesi… quelli sono solo stereotipi, niente di più.

Veniamo infine, alla felicità. Questa equivale, perlomeno in Cina e perlomeno in parte, ad essere una ruota dell’ingranaggio (o almeno ciò era vero fino a una generazione fa, ma le cose non sono cambiate completamente).

Insomma, qualcosa che per noi non solo è l’opposto della felicità ma addirittura un insulto, in Cina equivale alla felicità e alla realizzazione di sé.

Ok – direte voi – ma quest’ultimo punto riguarda la Cina. Giusto, parlo di quel che posso dire con certezza e stop. Questo non vuol dire che non sia così in Giappone, solo che non voglio affermare qualcosa con certezza se non posso provarlo. Per contro però prova qualcosa di molto importante: la felicità non è definibile univocamente.

Un cinese che ha o è tutto quel che sarebbe necessario ad un occidentale per sentirsi felice difficilmente sarà felice se non soddisfa quella che è l’idea di felicità secondo il comune sentire cinese… l’ambiente in cui vive, la convinzioni che lo circondano e con cui è cresciuto lo spingeranno ad avere altre aspettative dalla vita. Un nipote da dare ai propri genitori, ad esempio…

Con queste premesse possiamo sicuramente immaginare che l’autore, o perlomeno il titolista, non abbia capito nulla se giudica con il proprio metro di occidentale, come temo.

D’altronde è vero che il Giappone che noi amiamo e quello di cui parla l’autore sono diversi. Il Giappone che noi amiamo è quello che ci arriva tramite i media, film, serie tv, drama, anime, manga; oppure è quello turistico o quello della cultura tradizionale giapponese e delle sue arti, o ancora quello delle tante subculture: dal cosplay al mondo della musica Visual K, dall’ossessione dei fanatici della salute (i kenkou otaku) fino quella dei fanatici delle idol …o magari dei treni.

“Il Giappone che noi amiamo” non è uno, ci sono infiniti Giapponi. Ognuno ama il proprio e nessuno ama il vero Giappone, cioè il Giappone nel suo complesso e in tutta la sua complessità. Ciascuno di noi ama uno o due aspetti (a volte perfino distorti dalla lente dei media e della propria immaginazione) e si crea una propria immagine del Giappone, un’immagina che ama, più o meno alla follia, al posto del Giappone reale.

Ma quello non è il Giappone vero.

Il Giappone vero è un paese come tanti. Con i suoi pregi e difetti. È vero, molte cose sono più efficienti (attenzione, però, i treni fanno spesso ritardo), ma per contro ci sono anche vari lati negativi del vivere lì: la fatica che è richiesta sul posto di lavoro e nelle relazioni interpersonali è per noi italiani qualcosa di impressionante… Sempre che si voglia vivere da Giapponesi e non come “uno straniero in Giappone”, che alla fin fine non fa altro che andare avanti del tutto inconsapevole della realtà intorno a sé, di cosa pensano e si aspettano da lui gli altri.

D’altronde non è che non ci sia un fondo di verità nel sottotitolo del libro. C’è un libro giapponese sullo stesso tema (ma primo autore è anche qui uno straniero), che guarda al Giappone come un sistema che non pensa a rendere felici le persone. Anche qui però possiamo porci le stesse domande e darci le stesse risposte: la felicità è un concetto che esiste innanzitutto a livello culturale nella società e cosa questa “felicità” sia, come e in che misura percepirla sono cose che l’individuo apprende dal suo ambiente prima di sentire.

D’altra parte anche in Occidente capita di venire a sapere di persone che dovrebbero essere felici secondo l’idea comune di felicità (lavoro, amore, famiglia…) e invece non lo sono. C’è perfino chi non sa spiegarsi perché o cosa gli manchi per essere felice, no?

Fatte queste considerazioni e pensando al fondo di verità nel sottotitolo, come accennavo prima, non possiamo non parlare di suicidi.

Il Giappone è un paese come tanti altri, sì, ma con un altissimo numero di suicidi (ci sono 8 suicidi ogni 100 mila abitanti qui da noi e 32 in Giappone). Perché? Perché qualunque modello di società si costruisca, ci saranno sempre quelli a cui quella società proprio non va, perché l’individuo esiste, anche se la società è concepita come società collettivista, così come avviene in Giappone… E a volte l’individuo non è abbastanza malleabile e ha idee diverse da quelle che si prova a inculcargli più o meno velatamente e più o meno inconsciamente.

Quindi l’autore (o il titolista) ha torto e ragione nel contempo. Perché per chi è inquadrato nella società e ne condivide i valori e la “forma mentis”, il Giappone è un ottimo posto in cui vivere, se non il migliore o L’UNICO (non ci sono migrazioni di massa di giapponesi, no?).

Per chi inquadrato non è, però, può essere una società “stancante”, snervante, soffocante, opprimente perfino… ed ecco il perché di una parte dei suicidi (ci sono tanti motivi e la società è responsabile in parti molto diverse).

Suicidi che certo non sono l’unica conclusione possibile: c’è chi diventa otaku, neet, hikikomori, cosplayer, gothic loli, rockabilly, teppista… insomma c’è anche chi trova una valvola di sfogo che gli permetta di (cercare di) esprimersi. O a volte semplicemente sopporta. O al contrario è perfettamente inquadrato e imbevuto nella retorica del proprio paese, ma in base alle sue convinzioni e interpretazioni decide, di fronte al fallimento, di affrontarlo in modi completamente opposti (suicidarsi o meno), entrambi storicamente parte di una visione giapponese del mondo.

Ad ogni modo, no, non ho letto il libro, come accennavo sopra, e non penso nemmeno che lo prenderò mai in mano, specie viste le premesse (e il titolo).

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