Site icon Studiare (da) Giapponese

Miti dello studio – Imparare con le app

Una delle domande che più spesso leggo nei commenti o via mail è se sia possibile o no imparare una lingua con un’app. C’è chi segnala app in particolare (Babbel, Busuu, DuoLingo, Obenkyo, JA sensei ecc.) e chi invece vuole solo sapere se vale la pena mettercisi… Oggi proveremo a dare una risposta a questi dubbi.

“Ci sono decine e decine di app!” “No, sono solo due (o tre)”

Tutti vi sarete accorti della tendenza di Hollywood negli ultimi anni a fare remake, prendere storie già scritte (spesso fumetti) e ripresentarle condite di effetti speciali. A volte i risultati sono interessanti, ma non sono quasi mai “storie nuove”, questo è innegabile.

Cosa c’entra Hollywood con le app? C’entra, c’entra. La stessa hollywoodiana tendenza si ritrova in un mare di campi diversi. Perché darsi la pena di inventare o perlmeno prefezionare se si può copiare spudoratamente? Ne ho parlato anche citando “il metodo Heisig” di Remembering the kanji, che è ben più antico di Heisig. Un altro esempio illuminante è il “metodo AJATT”, all japanese all the time, che non è altro che una full-immersion e, inutile dirlo, non ha niente di nuovo.

Le prime tre app che abbiamo citato più su, Babbel, DuoLingo e Busuu hanno fatto la stessa identica cosa, hanno preso il metodo Rosetta Stone e lo hanno pubblicizzato come proprio, quando l’unica loro particolarità (per nulla trascurabile visto il prezzo assurdo dei prodotti RosettaStone) è di essere gratuite per l’utente (trovano i loro fondi in altri modi, anche diversi tra loro).

Non sono le uniche app a funzionare così, anche perché a livello di realizzazione app del genere possono essere replicate in un sacco di lingue con grande facilità: una volta tradotto il database di vocaboli e frasi la macchina fa il resto, perché la struttura è la stessa (immagini, grafica, opzioni, schermate, ecc.). È facile immaginare quindi che un simile sistema faccia gola e che molte app dello stesso tipo possano nascere.

Il secondo metodo a cui si ispirano tutte le altre app è quello di Anki, o meglio quello degli SRS, eventualmente “addolcito” dalla scelta multipla, ma andiamo con ordine.

Il metodo Rosetta Stone

Sostanzialmente si tratta di associare un termine a un’immagine, prima per tentantivi, p.e. 男の子 otoko no ko, viene associato, dopo un paio di errori magari, all’immagine di un “ragazzo”. Da lì in poi sappiamo cosa vuol dire e continuando a sentirlo pronunciare varie volte, cerchiamo di memorizzarlo, scartandolo quando ci viene proposta l’immagine di una ragazza, scegliendolo quando vediamo l’immagine di un ragazzo che beve e l’app ci vuole insegnare come dire “il ragazzo beve” e ancora riusandolo per comporre la stessa frase, “il ragazzo beve”, scegliendo da una lista in ordine sparso con alcune parole giapponesi, solo i giusti termini nel giusto ordine.

Funziona? Sì e no. Per ora rimandiamo il discorso però.

Il metodo Anki

Il metodo Anki invece è quello degli Spaced Repetition System (SRS o, in italiano, sistema di ripetizione dilazionata).Si tratta di riproporre al momento opportuno un vocabolo già studiato per evitare che venga dimenticato. La volta successiva, se il vocabolo è stato ricordato correttamente, verrà riproposto dopo un intervallo di tempo più lungo, e così via. Così facendo il vocabolo in questione viene spostato dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine (non sono “due tipi di memoria” c’è in realtà uno “spettro graduato” tra loro).

Insomma, un modo tecnico/elegante di dire quello che vi ho detto altre volte: se il nostro cervello si convince che una cosa è importante e ci interessa, allora se la ricorderà. Quindi se mostriamo spesso al nostro cervello quel qualcosa, se la ricorderà… niente di strano. Il punto del metodo in questione è cercare di ricordarla, vedendola il minor numero possibile di volte, per non perder tempo insomma. Richiamarla alla mente solo poco prima che venga dimenticata. Anki fa proprio questo e visto che è opensource e nemmeno l’unico progetto del genere, è chiaro perché altre app lo copino.

Si tratta, tra l’altro, anche del “metodo Pimsleur” che si rifà alla teoria degli SRS, ma stabilisce intervalli prefissati di tempo per riproporre una stessa informazione… questa mancanza di flessibilità rispetto ad Anki mi ha convinto a parlarvi di “metodo Anki” e ignorare il più famoso Pimsleur.

La variante del metodo Anki è quella che include la scelta multipla, tipo Obenkyo (se non ricordo male). Elimino subito questo metodo perché non è valido. L’ho provato per varie lingue, che conoscevo e che non conoscevo. Troppo spesso risolvevo l’esercizio per esclusione o comunque avevo troppi indizi per “trovare la risposta giusta” senza effettivamente conoscerla… mi spiace, ma non è così che si impara, nella conversazione reale non abbiamo scelte multiple che possono metterci sulla buona strada.

Gli interessanti pregi di un’app

Veniamo ora ai pregi di un’app rispetto ai metodi “più classici”. Anzi, al pregio, con la “o”, singolare. Le app sono più divertenti. Tutto qui. Non richiedono carta e penna, né libri di testo. Gli stessi creatori poi parlano spesso di gamification (i.e. “trasformazione in videogioco”).

“Giocando si impara” era il motto di una nota ditta di giocattoli educativi, ma, ehi, chi lo diceva era di parte. Difatti queste app sembrano efficaci, ma il punto è questo: sembrano efficaci. Non entro però nel merito, rimando ancora il giudizio.

Gli insuperabili difetti

Il metodo Rosetta Stone

Il metodo Rosetta Stone si avvicina per certi versi alla variante semplificata del metodo Anki perché troppo spesso permette di cavarsela andando per esclusione. Non solo, la “gamificazione” trasforma il tutto in un gioco contro il tempo (forse anche perché riascoltare lo stesso tipo di domande varie volte può essere molto frustrante), quindi vedo la parola clicco l’immagine senza nemmeno finire di ascoltare l’audio… è un grosso rischio.

Detto sinceramente, non conosco nessuno che abbia imparato davvero con questo metodo e basta.Ho letto su The Guardian di un giornalista che nell’ambito di un’iniziativa del giornale per promuovere l’apprendimento delle lingue aveva accettato la sfida di provare a imparare lo spagnolo solo con il suo smartphone, documentando i progressi nei suoi articoli. Alla fine del tempo previsto (un mese) scriveva che doveva riconoscere di non avercela fatta e che rimpiangeva di non aver potuto utlizare carta e penna e tabelle dei verbi. Se foste interessati agli articoli…

Io stesso mi sono applicato allo studio del cinese come prova. Ho usato un’app particolarmente quotata e ho completato il livello principiante. Inutile dire che non riuscivo a conversare… ma nemmeno a spiccicare parola in una semplice conversazione con mia moglie che provava a dirmi frasi semplicissime di vita quotidiana.

Forse non sono stato diligente io? O semplicemente non sono abbastanza bravo?

Ho reinstallato l’app a distanza di tempo e… magia, risolvevo ancora fantasticamente bene i vari quiz, solo che non sapevo comunque una beneamata di cinese. Metodo bocciato.

Il metodo Anki

Il metodo Anki è un metodo validissimo… per la memorizzazione di vocaboli. Applicarlo all’apprendimento di una lingua nel suo complesso è un’altra storia. Non solo! Richiede comunque costanza e, soprattutto, che non lo si smetta mai: se si smette si dimentica e questo è ovviamente il suo più grande difetto.

In realtà scoprire un vocabolo in una conversazione e possibilmente riutilizzarlo è mille volte più efficace (ma è ovvio che non sia sempre possibile questo approccio). Esempio. Quando ero arrivato da poco in Giappone, la mia futura moglie, all’epoca semplice amica, mi insegnò il termine 上映 jouei, cioè proiezione (di un film). Si parlava di andare al cinema uno di quei giorni. Indovinate un po’: non ho dimenticato più quel termine, anche se prima di riusarlo sono passati mesi e anche se da quella prima volta lo avrò usato sì e no tre volte in tre anni.

L’annoso problema comune ad app e materiale gratuito online

Tutto il materiale japanese-related che trovate gratuitamente online (e di sicuro anche qualche app a pagamento) ha un grosso problema di fondo: il suo database.

Esiste infatti un database che contiene le definizioni di un gran numero di vocaboli (EDICT), un altro per i kanji (kanjidic) e un altro per le frasi (tatoeba). Sono tre progetti opensource (e quindi benemeriti) più o meno correlati. Il punto però è che non sono nati per insegnare qualcosa, sono nati come materiale di riferimento. Sono a stento utili come dizionari, ma in un’app tipo Anki che punta alla memorizzazione? Sono addirittura dannosi a volte!

Ad esempio per il kanji 姉 ane, SHI (sorella maggiore) il database riporta anche la pronuncia HAHA (cioè “mamma”), che è ovviamente impensabile (è nel database per ragioni storico-letterarie che a noi non interessano); viceversa non segnala che si usi questo kanji nella parola お姉さん oneesan.

Per il kanji 気 (spirito) poi troviamo le pronunce: iki, KI, KE. Peccato che iki non sia assolutamente da imparare. Per il kanji di cento, 百, troviamo hyaku (giusta), byaku (rarissima), momo (assolutamente inutile).

E questi sono kanji basilari… I problemi aumentano con vocaboli di livello alto. Cito da un mio vecchio commento: Tempo fa ho provato a usare Obenkyo, pensando di ripassare per l’N1, è così che ne ho visto pregi e difetti. Apro il test vocaboli e mi esce 伝言 pronunce segnalate: dengon e tsutegoto …ma la seconda di queste non si usa affatto! Un giapponese non la conoscerà di sicuro!

Altro esempio significativo: per 商人 si ritrova in ordine:  “akiudo”, “akyuudo” e “akibito” …tutte pronunce più che antiquate. Va saputa solo “shounin” e al più la pronuncia più letteraria “akindo”. Le altre pronunce non solo sono sconosciute a un madrelingua, ma non figurano nemmeno in un dizionario monolingua famoso come lo 新明解 shinmeikai, per capirci.

Nessuna delle parole che presentano simili “rischi” è stata controllata da qualcuno che conoscesse il giapponese: l’app è stata realizzata (come SEMPRE accade per app e software) da qualcuno che sa programmare, senza nessuna supervisione sul materiale didattico da parte di un esperto di giapponese. Non vi pare un difetto “fatale”?

Morale? Volete usare Anki, ottimo, ma usate il materiale preparato da me (punti 1 e 4 della pagina sui kanji).

Una parola definitiva

Sono una persona sostanzialmente umile e schiva: a volte devo sforzarmi di “vantarmi” perché so che il mondo va così. Non posso però fare a meno di chiedermi cosa debba convincervi a credere a me e non a un altro. Specie quando dall’altro lato c’è una famosa e quotata azienda e qualcuno che vi promette il Sacro Graal dell’apprendimento linguistico (imparare una lingua senza sforzo).

E allora mi sono detto, bene, lasciamo la parola ai fondatori di queste aziende. Sì, perché se da un lato abbiamo il sito di DuoLingo che riporta “An independent study found that DuoLingo trumps university-level language learning.” (uno studio indipendente ha scoperto che DuoLingo batte di gran lunga l’apprendimento di una lingua a livello universitario), dall’altro abbiamo l’intervista del fondatore dell’azienda, Von Ahn che alla domanda «Crede sia possibile imparare una lingua usando solo “strumenti online”?» risponde:

“It depends what you mean by learn a language. You can learn to the point where you can navigate and have relatively simple conversations but you probably won’t be writing any great works of literature.”
Dipende da cosa si intende per “imparare una lingua”. Si può arrivare a riuscire a navigare ed avere una conversazione relativamente semplice, ma non si diventerà capaci di scrivere letteratura di un certo livello.

Il vicepresidente di Rosetta Stone per l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa, Donavan Whyte, pensa poi che la tecnologia può aiutare ma non eliminerà il bisogno di essere davvero motivati ad imparare (l’unico campo in cui le app sembravano aiutare era quello della motivazione, poiché un “gioco” è meno noioso di un libro di testo, si suppone). Per la precisione ha dichiarato al The Guardian:

“I think it is possible to learn a language on your own via some tech-based platform, but I think it would take you a long, long time and you would need to be very disciplined.”
Penso sia possibile imparare una lingua da soli con una qualche piattaforma tecnologica, ma penso anche che richiederebbe molto, molto tempo e che uno dovrebbe essere davvero disciplinato (nel suo studio).

Whyte e Kevin Chen, amministratore delegato di iTalki, concordano poi che gli strumenti online risultano davvero efficaci solo se usati insieme ad altri strumenti didattici (più classici).

“Education should come from as many different sources as possible. Education will be personalised for the student, so that they can learn in the most efficient way for them. For italki, we’re just one piece of this ecosystem.”
L’educazione dovrebbe essere disponibile in quante più forme possibili. (Un giorno) l’educazione sarà personalizzata per lo studente cosicché possa imparare nel modo più efficiente per lui. Per quanto riguarda italki noi siamo solo una parte di questo “ecosistema”.

…e considerate che queste sono le voci di gente, quantomeno DI PARTE. Sono amministratori e fondatori di queste aziende che di certo non vorrebbero sminuirne l’importanza, anzi. Possiamo aspettarci che la realtà sia un po’ più dura di come ce la dipingono in pubblicità?

Non solo, cosa vuol dire “è utile, ma servono anche i soliti metodi”? Sembra di leggere le avvertenze di certi metodi dimagranti. Tipo “questo prodotto è miracoloso, ma va usato conducendo una vita sana (=facendo sport) e attenendosi a un regime ipocalorico”. Che poi è come dire: se usi questo prodotto, fai sport e stai a dieta, dimagrirai! Ma ehi, indovina un po’, quello che non dicono è che se fai sport e stai a dieta, dimagrirai anche se non usi questo prodotto miracoloso!

Cosa fare allora con queste app?

Usatele pure! Usatele e divertitevi. Se vi piace la sfida e vi aiuta a restare motivati, ben venga. Ma attenzione, non pensate possano sostituire tutto il resto, tutte quelle cose che dovrete fare comunque per imparare una lingua… lo dicono gli stessi presidenti e/o fondatori delle aziende che hanno realizzato questa app.

Non confondete il fatto che vi vengano facili e l’efficacia! Completare gli obiettivi richiesti non significa che state davvero imparando, non significa che completato il livello “beginner” avrete una conoscenza della lingua da “beginner”. Se fosse possibile sostituire 12 anni di scuola con un’app completabile in poche ore, l’insegnamento sarebbe già radicalmente cambiato e in un mese saremmo tutti dei geni.

Il solo fatto che vengano così facili è un indizio. Alla fin fine sono dei prodotti. Un insegnante mira ad insegnare, un app mira a “vendere” o ad “essere scaricata”, se preferite. Per far ciò deve mirare alla soddisfazione del cliente che – a sua insaputa – non è data dall’imparare ma dal vedersi dire continuamente “Congratulazioni!” o “Hai guadagnato 50 punti!” e via così. È un istinto naturale essere felici quando si viene lodati, non c’è nulla di male. Il male sta nel contare fin troppo su questa nostra umana caratteristica. E anche sulla nostra passione per “i social” sfruttata da queste aziende perché sia l’utente a far loro pubblicità senza dover sborsare una lira.

Le app ci danno quello che vogliamo: una parvenza di efficacia (grazie ai tanti “congratulazioni!”, scritte su fondo verde, e ai suoni di trombe), l’idea che stiamo imparando qualcosa senza sforzo. Ma cosa stiamo imparando? Non una lingua, non una lingua nel suo complesso.

Alla fine della fiera, mi duole dirvelo, you get what you pay for (si ottiene ciò per cui si è pagato) …e queste app sono gratis.

Exit mobile version