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Lo sapevate? – Il sistema scolastico in Giappone

In Giappone il sistema scolastico è uno strano mix di influenze straniere. Un po’ come la cucina giapponese: che ci crediate o no, tenpura, tonkatsu, curry rice… perfino il sushi, sono tutti piatti d’origine straniera (so che suonerà strano, ma di tenpura ho parlato nell’articolo ramen in stile svedese).

Ma torniamo al tema di oggi, la scuola; un tema quantomai appropriato visto che siamo in settembre e milioni di studenti sono appena tornati a sedersi ai loro banchi, o stanno per farlo.

La scuola pubblica in Giappone è stata istituita all’inizio dell’epoca Meiji (che inizia nel 1870). Inaspettatamente i giapponesi, famosi per essere un popolo alquanto “docile”, non presero bene la riforma e protestarono dando alle fiamme molti degli edifici scolastici appena costruiti, perché la scuola, per usare un’espressione comune, toglieva braccia all’agricoltura.

Com’era costume in Giappone in quel periodo il governo guardò all’Occidente nel creare il sistema scolastico giapponese. Ancora oggi, difatti, questo si basa sul sistema tedesco per quanto riguarda l’organizzazione: sei anni di elementari, tre anni di medie inferiori e tre anni di medie superiori …ecco spiegato il perché della strana “suddivisione degli anni scolastici”, che ritroviamo in ogni serie animata a sfondo scolastico.

L’esame è tutto

Il modo di concepire l’istruzione, il suo scopo e il suo ruolo nella vita dell’individuo derivano dal modello cinese, ovvero “si studia (alla morte) per passare l’esame”, perché “solo l’esame potrà aprirti delle strade nella vita”.

Quest’idea è dovuta al fatto che in Cina secoli e secoli fa fu istituito un sistema a dir poco ottimo …sulla carta. Si decise di scegliere gli ufficiali di governo, tutti quelli che dovevano far parte dell’amministrazione e della macchina burocratica, non in base all’estrazione sociale ma in base al merito, istituendo un esame per accertare le capacità dei singoli. Purtroppo tutto ciò, pur avendo dei risvolti positivi, è degenerato nell’idea che l’esame sia l’unica cosa che conta. Un’idea dura a morire… una delle poche cose ad aver superato indenne l’avvento del partito comunista cinese.

È per via di questa mentalità (tipo “l’esame è tutto”) che gli studenti affrontano il cosiddetto 受験地獄 juken jigoku, “l’inferno degli esami di ammissione”, o 試験地獄 shiken jigoku, “l’inferno degli esami”, un periodo in cui gli studenti danno il massimo per poter entrare nella loro 志望大学 shibou daigaku, l’università a cui aspirano. Di solito questo periodo equivale al terzo anno delle superiori, perlomeno l’ultima parte, ma si sente spesso dire che “la preparazione all’esame inizia con il primo anno di superiori”.

La preparazione all’esame di ammissione all’università comincia nel momento in cui si entra alle superiori!

Ogni anno ci sono degli studenti che si suicidano non riuscendo ad affrontare la pressione di questo periodo, quindi questo caso è forse uno dei pochi in cui la parola “inferno” non deve suonare come un’esagerazione.

I “doposcuola alla giapponese”: ijuku

Per potersi preparare all’esame d’ammissione molti studenti iniziano a frequentare un “doposcuola”. Il termine italiano è però quantomeno poco adatto a definire i 塾 juku giapponesi. Ricorda infatti il doposcuola dei tempi delle elementari, fatto essenzialmente di disegni, giochi e magari una merenda. I juku giapponesi invece cominciano appena finisce l’orario scolastico (in genere le 3 e mezza) e proseguono per tutto il pomeriggio e anche dopocena. Ricordo di aver visto rientrare a casa studenti ancora con indosso la divisa scolastica alle 11 e mezza di sera.

L’importanza dell’esame è tale che la visione di molti genitori è la seguente: per poter entrare nell’università desiderata bisogna entrare nella giusta scuola superiore, per poter entrare nella giusta scuola superiore bisogna entrare nella giusta scuola media, ecc. Ci sono genitori che fanno di tutto per far entrare i figli nel giusto asilo (´-___-`;)

Gli stessi juku non sono tutti uguali e i migliori sono cari e richiestissimi. Non solo, anche per i juku non è solo questione dell’ultimo anno prima dell’esame. Molti ragazzi cominciano a frequentare i juku fin dalle scuole elementari… Ecco la riprova nella pubblicità di un juku, la Waseda Academy. Il video qualche tempo fa ha fatto molto parlare di sé. Dategli un’occhiata e giudicate voi …ovviamente è tradotto (da me), non preoccupatevi ^^;;

Contenuti, metodo di studio e criteri di valutazione

Lo stile in cui  vengono proposti i contenuti, tenendo cioè in mente l’esame come unico obiettivo (e non la formazione di un cittadino consapevole, con un suo pensiero critico) e lo stile con cui sono pensati gli esercizi (che richiedono la ripetizione pedissequa delle nozioni studiate, eliminando ogni possibilità di esprimere un pensiero proprio) sono anch’essi identici al modello cinese. D’altronde lo scopo è lo stesso: un’efficace memorizzazione, concepita come il solo metodo di studio possibile… perché ovviamente per avere la certezza di ottenere un buon voto all’esame, memorizzare è il metodo più sicuro.

Ciò significa valanghe di compiti scritti, in un certo senso “semplicissimi”. Tutto rispecchia, potremmo dire, il metodo di studio dei kanji: copiare e ricopiare. Le risposte in un esercizio di comprensione di un testo sono sempre fornite nel testo o dall’insegnante, devono solo essere riscritte. Se si è diligenti fin dall’inizio della scuola, non si può fallire (ovviamente imparare ad essere diligenti è il compito più difficile e spossante e quindi andare male a scuola è possibilissimo). Perfino le composizioni scritte lasciano pochissima libertà, non nei contenuti, ma nella struttura …ben più rigida del nostro “introduzione, svolgimento, conclusione”.

A proposito di “rigidità”, le composizioni hanno sempre un numero di caratteri da rispettare. Se vi viene detto di fare un riassunto di massimo 200 caratteri, non possono essere 100 né 201! Se viene detto di scrivere gli ultimi 10 caratteri della frase in cui l’autore esprime una certa cosa e si indovina la frase, ma non si considera il punto come ultimo carattere, l’esercizio è considerato sbagliato! Se viene detto di non scrivere nei margini del foglio e una risposta sfora di uno o due caratteri nel margine, l’esame riceverà uno zero, a prescindere dalla bontà delle risposte.

Il sistema scolastico è ciò che in primis forma il cittadino. Questo sistema scolastico, quindi, è ciò che permette alla società di avere così tante persone che diligentemente si applicano per svolgere il loro, rispettando rigidamente le istruzioni, facendo orari di lavoro lunghi e spossanti. È tutto negativo? Non direi. Essere diligenti, responsabili e dediti al proprio lavoro non può essere nulla di negativo. Anzi, sotto questo profilo abbiamo molto da imparare.

Gli stessi criteri di valutazione sono influenzati dalla smoderata importanza attribuita all’esame. La valutazione infatti deve essere perfettamente obiettiva, libera dall’interpretazione dell’insegnante, con dei parametri uguali a livello nazionale perché i voti siano confrontabili e si possa scegliere tra un candidato e l’altro sul filo del centesimo di voto.

I contenuti, invece, sono stati a lungo, in parte, influenzati dall’alleato di sempre, l’America. O forse dovremmo parlare di un alleato che si è imposto come tale dal dopoguerra ad oggi, ma ai fini del discorso poco cambia. Storia a parte però sono influenzati dai criteri di valutazione. Non è possibile infatti valutare in modo preciso un compito dove lo studente è davvero libero di esprimersi. Per questo perfino i cosiddetti 感想文 kansoubun, ovvero dei temini che chiedono allo studente le sue impressioni su un testo, sono in realtà del tutto slegati dall’opinione dello studente che scrive. Bisogna capire quale impressione ci si aspetta che susciti il testo e scrivere quella… Se si propone onestamente la propria, diversa impressione, ci viene detto che non abbiamo capito il testo (?!?) e che un kansoubun non è un 意見文 ikenbun, un tema che chiede l’opinione dello studente (anch’esso tutt’altro che libero, in realtà; in sostanza dà solo la possibilità di dirsi favorevole o contrario a qualcosa e di suggerire una soluzione al problema: nulla ha a che fare con la letteratura).

L’interazione con gli insegnanti è molto limitata. Qui si viene spesso invitati a fare domande. Non a caso la nostra cultura ha le sue radici in Grecia: l’idea alla base è quella della dialettica socratica (“maieutica”, se qualcuno si ricorda delle sue lezioni di filosofia), secondo la quale imparo e capisco di più se partecipo a un dialogo che prosegue per botta e risposta, diciamo.

In Giappone però, ovviamente, non è così che vanno le scuole. Di una società gerarchica, quale sappiamo che il Giappone è, non ci stupisce di sapere che pone l’insegnante (la persona più importante in classe) su un piedistallo, metaforicamente e letteralmente, visto che, almeno nelle vecchie scuole, la “cattedra” (che assomiglia più a un podio da cui si fa una conferenza) si trova su una specie di “palco” rialzato, detto 教壇 kyoudan.

Non si interrompe l’insegnante durante la lezione con delle domande, per educazione e perché si deve ascoltare innanzitutto cosa ha da dire, ovviamente, ma anche perché la tua domanda è privata, se vuoi la fai dopo la lezione, non puoi interrompere il processo di apprendimento altrui per una tua curiosità…

Be’, ovviamente mi aspetto che ci siano mille situazioni diverse, con studenti che fanno anche domande ogni tanto… e studenti che fanno i buffoni o che sono maleducati, ma io vi parlo della filosofia di fondo, diciamo 😉

Un’inaspettata conclusione

Ad aver subito un’influenza straniera è stato anche… l’abbigliamento! Sempre dall’America, infatti, arriva la famosa “divisa alla marinaretta”, o meglio セーラー服 seeraa fuku (dall’inglese “sailor”, marinaio, e fuku, vestito).

Più precisamente l’introduzione di questa divisa si deve a un’immigrata americana, Elizabeth Lee, direttrice dell’istituto privato femminile “Fukuoka School for Girls”. L’idea originale però era radicalmente diversa da quella attuale: l’obiettivo era quello di creare un look ordinato, pulito, ma nel contempo deciso, volitivo… quasi come per invitare le ragazze ad assumere in futuro un ruolo più attivo nella società.

L’idea iniziale dunque originò da qui…

…ma sappiamo bene come è andata a finire: in modo praticamente opposto.

L’immagine della divisa studentesca (e delle studentesse) è stata sfruttata ed è divenuta più un’icona sessuale, di purezza (di solito) violata o da violare. Così l’immagine attuale della divisa più che favorire un ruolo attivo delle ragazze nella società, le rilega in una categoria (molto “ammiccante” e) sfruttata in vari modi, perlopiù poco morali…

Penso di aver reso l’idea ^^;;

Strane distorsioni a parte, il sistema scolastico in Giappone (ma anche in Cina) ha un suo perché. È funzionale a quelle società, quindi attenzione a condannarlo a priori. Senza considerare che molti, in questi paesi, sono dell’opinione che vada migliorato (anche se difficilmente verrà mai radicalmente cambiato, in una società così conservatrice), anche alla luce di problemi come quelli del bullismo o degli hikikomori, che però affronteremo in un’altra occasione.

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