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Per imparare il giapponese – Kanji, parole e traduzioni impossibili

Come visto nell’articolo I kanji e i loro segreti, i kanji sono dei caratteri a cui viene associato non solo un suono, come succede per le lettere e per i kana, ma anche un significato.

È forse per questo motivo che molti studenti tendono a confondere il concetto di kanji e quello di vocabolo. Molti infatti credono che “kanji = parola” e “parola = kanji”, ma non è così.

1. La differenza tra “kanji” e “parole”

Kanji e parole sono concetti diversi, ben distinti tra loro. Un kanji è innanzitutto un “carattere”, come lo sono la lettera A e il kana あ, per capirci. Una parola, invece, si ottiene di solito mettendo insieme più caratteri (kanji + kanji, es. 思考 shikou, pensiero, o anche kanji + kana, es. 思う omou, pensare).

È vero, ci sono kanji che anche se presi da soli creano una parola, ma questo tutto sommato vale anche per l’italiano dove alcuni caratteri, come “a”, “e”, “o”, ecc., sono caratteri, sì, ma nel contempo sono utilizzabili anche come parole (es.: “a Milano”, “Milano e Torino”, ecc.). Classici esempi di kanji del genere sono 人 hito, persona, 手 te, mano, 一 ichi, uno, 月 tsuki, luna…

La maggior parte di questi kanji potrà essere usata anche insieme ad altri kanji per creare una parola. Per esempio 人手 hitode vuol dire “manodopera”, mentre 一月 ichigatsu significa “Gennaio”. Creando una parola con più kanji la pronuncia di uno o più kanji può variare rispetto alla pronuncia dei singoli kanji presi da soli. Può farlo solo leggermente come nel caso di “te” → “de”, o anche drasticamente come per 月 “tsuki” → “gatsu” (in quest’ultimo caso siamo passati da pronuncia di origine giapponese a pronuncia di origine cinese).

Molti kanji, invece, hanno assoluto bisogno di unirsi ad altri caratteri per formare una parola: alcuni si accontentano di un kana, magari, come nel caso del citato 思う. Il kanji 思 infatti non forma una parola se preso da solo (potremmo dire che è più simile a un’immagine o a un simbolo), può solo accompagnarsi ad altri kanji o perlomeno a dei kana (come nei due esempi visti: 思考 shikou, pensiero, e 思う omou, pensare).

Altri kanji, poi, “non stanno da soli” e “non accettano di accompagnarsi a dei kana”: hanno sempre bisogno di stare insieme ad uno o più kanji per formare delle parole. Un esempio di un kanji del genere è 紹 kanji che si ritrova in 紹介 shoukai, il presentare o introdurre qualcuno. 紹 da solo richiama vagamente un senso, ma non è una parola e quindi non lo si può usare in una frase: non si può dire “紹 è ….” (spero sia chiaro il senso).

Ci sono anche altri casi, più o meno simili. Per esempio kanji che oggigiorno possono essere usati solo come prefissi o suffissi e altri ancora che possono essere utilizzati solo nei nomi propri e/o vengono utilizzati solo per il loro suono, a prescindere quindi dal significato originale, “dall’immagine che essi trasmettono” e che di solito sarebbe il punto chiave di un kanji.

Ma di kanji abbiamo parlato abbastanza, concentriamoci sui vocaboli.

2. La “traduzione di una parola” non esiste

L’errore peggiore che si possa fare, da principianti che studiano una lingua lontana come il giapponese, è quello di cercare una parola italiana e credere di aver trovato una “traduzione”: non esiste la traduzione di una parola.

Ad una parola italiana corrispondono spesso e volentieri MOLTE parole giapponesi. Questo perché molte parole italiane hanno più sfumature di senso (es.: “ragione” indica un motivo, l’opposto del torto, la capacità di ragionare, il senno…) oppure più usi (es. “prendere” si usa per “prendere un oggetto”, “prendere la macchina”, “prendere una cosa da mangiare”, “prendere l’influenza”, “prendere la medicina”…).

Dunque se cerco su un dizionario la parola “conclusione” mi ritrovo con espressioni come 結末 ketsumatsu, 完結 kanketsu, 結論 ketsuron, 判断 handan, 断定 dantei, 完了 kanryou, 決着 kecchaku… Indovinate un po’, non potete usarne una qualsiasi per dire “conclusione”, dipende da cosa volete intendere! Volete parlare della conclusione di un ragionamento, della fine di una trama, del completamento di un lavoro, della conclusione che avete raggiunto per cui avete deciso di fare qualcosa…? Sono tutti casi diversi in giapponese.

A volte nemmeno un tot di parole (da scegliere a seconda del contesto) sono sufficienti: a volte sono necessarie lunghe espressioni per “tradurre una parola”.

In breve non è possibile dire che la parola italiana A è uguale alla parola giapponese B. Non coincideranno praticamente mai. E poi una parola non è “un singolo oggetto” è semmai un insieme… Un insieme dei casi in cui quella parola si può usare.

Facciamo due cerchi su un foglio, uno per una parola giapponese semplice, come 飲む nomu, e uno per la sua “classica traduzione”: bere. In un cerchio rientrano tutti i casi (virtualmente infiniti) in cui viene usata la parola 飲む nomu e nell’altro i casi in cui viene usata la parola “bere” in italiano.

I due cerchi si intersecano. Nel mezzo troviamo i casi in cui se in italiano uso “bere” in giapponese posso usare “nomu” e viceversa. Ci sono però dei casi (i cerchietti sulla destra) in cui uso “nomu” in giapponese ma in italiano non posso usare “bere” (per esempio quando si prende una pillola); e viceversa ci sono dei casi in cui uso “bere” in italiano ma non posso usare “nomu” in giapponese (questi casi sono rappresentati dai triangolini), come quando “mi bevo una bugia” o “mi bevo l’ultima possibilità che avevo con una bella ragazza”.

Insomma, tutto ciò prova che l’idea stessa di “traduzione di una parola” è un’idea sbagliata in partenza. Si può solo fare un’approssimazione, valida in certi casi e in altri no. E questo senza considerare casi estremi in cui una traduzione (decente) non esiste o casi in cui una traduzione chiara c’è, ma nelle due lingue la stessa espressione ha valori culturali diversi.

Quest’ultima possibilità è anche molto interessante. Ad esempio “ki ga tsuyoi”, cioè “volitivo/a”, “dalla forte volontà”, in giapponese è un’espressione negativa (specie se riferita a una donna) ma è solo positiva in italiano. O ancora “furbo” è un’espressione praticamente sempre positiva in italiano (a meno che sia usata con sarcasmo), mentre in giapponese, “zurukashikoi” è sempre negativa. Ancora “natsukashii”, detto di qualcosa “che provoca nostalgia” è in realtà qualcosa di positivo, non di triste (e consiglio di tradurlo dicendo “Che bei tempi!” o “Quanto tempo!” a seconda dei casi). L’aggettivo “nigiyaka”, spesso reso con “lively”, “pieno di vita”, può essere usato in realtà come critica, più o meno velata.

Il punto chiave è quindi quello di non cercare una traduzione per una data parola, ma imparare piuttosto come quella parola è usata in giapponese, tramite gli esempi. Capire quindi, non solo con quale significato è usata, ma anche in che contesto/i, le sue sfumature, la valenza culturale positiva o negativa…).

Ehi! Nell’immagine iniziale quella comodissima app dà una traduzione istantanea! Ma allora si può! – dirà qualcuno.

Rimandiamo ad un’altra volta perché le macchine non sostituiranno mai la traduzione fatta dagli umani e restiamo all’immagine in questione. L’inglese “milk”, latte, comprende il latte di capra e perfino il latte materno. La parola originale, scritta in caratteri cinesi, contiene però il carattere di “mucca”. Insomma, è un buon esempio di mancata corrispondenza tra le due lingue.

Per approfondire quanto detto vi consiglio:

Per oggi è tutto, la prossima volta vedremo come studiare i vocaboli nel modo migliore! 😉

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