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Alcune delle tante facce del Giappone (seconda parte)

IL CONCETTO DI “KAWAII”

Sono entusiasta, devo dire, per come sono stati accolti i precedenti due articoli, quello sul caso Minami Minegishi di Karusama e il mio di approfondimento su certi “costumi” che ritroviamo dietro la questione del video e della regola che ha scatenato quel “caso”… Dunque riprendo il discorso dove l’avevamo lasciato, ma questa volta ci chiederemo anche perché tante persone sono ossessionate da ciò che è “carino”, laddove altri propenderebbero per ciò che è sexy (riviste di moda, pubblicità, ecc.).
In un secondo momento proveremo a capire cosa c’è dietro l’ossessione di tanti fan, il perché del “mito della ragazzina così carina, giovane e pura”, con comportamenti infantili, e una vocina un po’ ridicola…

Sul “mito” in questione ricordo d’aver letto un articolo che in buona sostanza associava il fenomeno “adorazione delle ragazzine” al fetish per le divise scolastiche… che di per sé esiste, per carità, ma le divise scolastiche sono in circolazione dagli anni Venti del ‘900, mentre questo fenomeno è molto più recente… e vale la pena di ricordare che le idol perlopiù vestono in modo sgargiante, l’opposto della セーラー服 sailor-fuku, ovvero la “marinaretta” cui si pensa quando si parla di divisa scolastica.

No, essendo più realistici abbiamo tre importanti fattori: kawaii, akogare e amae.
Tratterò il concetto di kawaii oggi, solo come premessa, ma non preoccupatevi se sembriamo allontanarci molto dal discorso, penso che lo troverete comunque (o proprio per questo motivo) un articolo molto interessante.

 可愛い Kawaii

Se in Giappone esiste una religione davvero diffusa e rispettata, questa è “il kawaii” (termine generalmente tradotto – approssimativamente – con “carino/a”).

La parola è 和語 wago, una paola d’origine giapponese, sebbene i kanji che la compongono siano letti con pronuncia d’origine cinese. Questo perché deriva da 顔 kao, viso, e da 映ゆい hayui, bello/a d’una bellezza quasi accecante (lo stesso significato si ritrova in mabayui, dove “ma” = occhio). Non a caso fino al dopoguerra si scriveva かはいい kahaii e ancora oggi la pronuncia del suono “u” contenuto nel “wa” di kawaii è molto tenue.
Dunque kao+hayui perde la “o” e vede un passaggio dal suono “yui” a “ii” (succede in giapponese, nella lingua colloquiale, per esempio “zurui” diventa “zurii”). Infine con la riforma dei kana avvenuta nel dopoguerra si è passati a scrivere かわいい kawaii.

L’etimologia però non spiega che il concetto di kawaii oggigiorno non è associato alla bellezza fisica, non solo almeno.
È abbastanza recente l’anime “Ore no imouto ga konna ni kawaii wake ga nai”, che tradotto sarebbe “Non è possibile che la mia sorellina sia così carina” e di cui vedete la copertina della light novel qui sopra. In questo il protagonista dice spesso della sorella “kawaikunai”, “non è carina”… ma la sorella è l’idol della scuola e fa la modella per le riviste di moda… dunque, come dicevo, non è tanto questione di bellezza fisica.

Non solo. Il termine kawaii si associa spesso anche agli animali e perfino agli oggetti…
La passione giapponese per i gatti è proverbiale, tanto che sono nati dei “Neko cafè” (da 猫 neko, gatto), dove difatti si va per coccolare (可愛がる kawai-garu) qualche felino.
Per quanto riguarda gli oggetti kawaii invece è abbastanza banale parlare di vestiti e gadget kawaii, ma credo non vi aspettereste mai, come non me l’aspettavo io, di vedere in treno un distinto salary-man (impiegato) di 50-60 anni con un cellulare carico di strap d’ogni genere e tutti kawaii…

Inoltre ultimamente hanno preso piede strane mode e termini come kimo-kawaii (kimoi è traducibile con “che fa schifo”, “che fa senso”) e busu-kawaii (busu indica una ragazza brutta, noi diremmo “racchia” o “cozza”). Tra l’altro anche qui in Italia è uscito un manga, yaya-busu, che parlava di busu-kawaii; qualcuno lo ricorderà, il titolo è Adorabile bruttina.

Dunque kawaii viene riferito a qualcosa che “piace perché fa tenerezza e/o simpatia” …e come ho scritto è ormai una religione.

Complice forse la cultura dei manga, oggigiorno qualunque cosa in Giappone ha la sua “mascotte” e perfino avvisi serissimi della polizia, come uno contro l’usura, vengono presentati con fumetti in versione deformed, in cui i personaggi appaiono deformati, generalmente piccoli e paffuti così da fare tenerezza contando sull’istinto umano che associa certe proporzioni a cuccioli e bambini.
Lo stesso si può dire del manifesto di un centro di sostegno alle vittime della ヤクザ yakuza che vedete nell’immagine seguente.

Nemmeno la religione, quella vera, si salva… anzi, si adegua. Guardate ad esempio queste istruzioni per l’uso della fontana all’ingresso del tempio… in versione manga!

Basta? Ovviamente no. Credereste mai che uno dei principali templi di Kyoto ha la sua mascotte, il leone di peluche Raon-kun?

E credereste mai che per aiutare a vendere soba e natto (cibi tradizionalissimi, mai associati alle generazioni più giovani) questo negozio usa una statua d’oro di Hello Kitty?

O ancora, vi pare possibile creare una mascotte di Ryouma Sakamoto, uno dei samurai che contribuì in modo chiave alla Restaurazione Meiji?

Il problema, se di problema si tratta, è “Perché?”. Perché questa “cultura del kawaii”? Perché questi slanci verso una kawaii-zzazione di qualunque cosa?
La risposta più probabile è, a mio parere, data dall’importanza che il mercato che ha come target le adolescenti ha assunto in Giappone… sommata alla cultura dei manga di cui sopra.

L’importanza della fascia di mercato delle adolescenti è indubitabile per chiunque non sia cieco, ma per sicurezza specifico che non invento nulla, perfino in qualche documentario ho visto liceali reclutate nel centro di Tokyo per provare dei prodotti e dare dei pareri in merito… per dettare cioè le nuove tendenze.

Tale importanza, ad ogni modo, è nata probabilmente per via dei tanti バカ親 baka-oya (“genitori stupidi”, letteralmente, ma è inteso come genitori che viziano troppo i loro figli).
In un paese a bassissima natalità e contemporaneamente molto ricco, come è il Giappone, è forse stato un passo inevitabile, fatto sta che le ragazzine si sono trovate con troppi soldi per le mani…

Se poi aggiungiamo che tra fine anni ’90 e i primi del 2000 (quando il Giappone era colpito da una grave crisi economica) è nato anche il fenomeno dell’ 援助交際 enjoukousai… Ditemi voi chi non darebbe più soldi alla propria figlia adolescente per evitare che si prostituisca per comprarsi l’ultima borsa di Gucci? (A tal proposito consiglio di leggere la mia traduzione della canzone di Bennie K, Monochrome). Non sono pochi poi gli anime, i manga e i drama che citano il fenomeno… GTO è forse l’esempio più famoso..

Anche se questo sarà stato solo uno dei fattori, possiamo ignorare per un attimo la cosa e attenerci solo ai fatti. Ci rendiamo conto che:
(i) non c’è stato un moto culturale che andasse controcorrente e si ribellasse ai modelli televisivi palesemente sbagliati, che “imponevano”, tra le altre cose, costosi prodotti di importazione;
(ii) la paghetta media di bambini e ragazzi è cresciuta sempre più, nonostante il Giappone sia preso in una crisi strisciante che prosegue da 20 anni e nonostante – coerentemente con questi dati economici – la spesa media per il pranzo fuori casa di un impiegato sia diminuita allo stesso tempo.
Ciò significa letteralmente che ci sono padri di famiglia che risparmiano su quello che mangiano pur di viziare la figlia… In effetti sono le donne a “gestire la cassa” in Giappone (dando ai mariti solo una paghetta o お小遣い okozukai), ma dire “affamano i mariti per viziare le figlie” mi sembrava eccessivo e mi sembra più probabile che si tratti di una decisione comune (e forse non proprio una decisione consapevole, quanto un “lasciarsi trasportare dal modo di fare comune”).

Nella terza e ultima parte (prometto che sarà l’ultima! Scusate se il discorso mi è sfuggito un po’ di mano!) torneremo a spiegare il fenomeno da cui siamo partiti, trattando altri due importanti “fenomeni” della società giapponese, akogare e amae, e cercando di spiegare come queste due cose possano essere positive, da un lato, ma portare alla malata ossessione di certi fan dall’altro.

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