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From Tokyo with love… maji de.

P1030580Come qualcuno avrà notato, il sottotitolo del blog è ora una parodia del titolo del film con John Travolta, From Paris With Love. Ad essere sincero esiste anche un film intitolato From Tokyo with Love, ma è talmente vecchio che è impossibile pretendere che qualcuno lo conosca…
Invece l’espressione giapponese “maji de” si usa per dire “sul serio” o “dico davvero”.
Fin qui tutto chiaro, no?

Svelati questi piccola retroscena, passiamo al grande annuncio…

キタ━━━━(゚∀゚)━━━━━━━━━━ァァアアア!!! (kitaaa! = è arrivato!)

Scusate, first things first, come dicono gli anglofoni.
Innanzitutto… sono in Giappone.
Ma non è questo l’annuncio e non sono io quel che “è arrivato”. No, no.
Si tratta invece del mio primo “ojouzu desu ne” di questo viaggio …che non ha tardato ad arrivare, a dire il vero: è successo la mattina del secondo giorno, mentre mi trovavo ancora in albergo.

Forse conoscete l’espressione, forse avete anche letto l’articolo Ohashi jouzu (che bravo che è con le bacchette) della nostra brava Daniela… Nel caso sarà una ripetizione per voi, ma lo rispiego: jouzu è un aggettivo che indica qualcosa in cui siamo bravi.
Perciò nihongo ga jouzu desu ne significa “Ma Lei è proprio bravo con il Giapponese, sa?” Una frase che i giapponesi amano dire a chiunque arrivi a balbettare un semplicissimo “arigatou gozaimasu”. Insomma, non è un vero complimento (molto probabilmente), ad esempio nel mio caso una cameriera mi ha detto “sumimasen” (mi scusi), levando qualcosa dalla mia strada, e io ho risposto “iee, iee”, cioè “si figuri” o “non c’è problema”.
Davvero poco per suscitare un “Ma quanto è bravo con il giapponese!”

Molti stranieri in effetti tendono a lamentarsi di questo falso complimento e di mille altre particolari atteggiamenti che considerano razzisti e chiamano “micro-aggressioni”.
Francamente riesco a pensare ad atteggiamenti razzisti peggiori di questo. Solo un americano e/o un cittadino di un paese con una forte integrazione e davvero multiculturale può ragionevolmente lamentarsi di certe cose.

Uno straniero in Giappone non è uno straniero in America, che sarà indistinguibile da un americano: uno straniero in Giappone è calato nel ruolo dello straniero in Giappone. In un certo senso è immediatamente integrato nel gruppo, nella collettività, ma il fatto è che il suo ruolo è quello di essere straniero in Giappone.
Dunque in realtà è non-integrabile per definizione. Passaporto a parte, si può “diventare”, o almeno apparire americani: basta sapere la lingua e si può passare per americani volendo. Non si può però diventare giapponesi, non intendo a livello burocratico ma razziale… diciamo che non si può passare per giapponesi (se si è occidentali). Questo non significa però non avere un ruolo nella comunità.
Il problema è se quel ruolo ci va stretto o no… problema che un giapponese non si porrebbe mai, perché il proprio ruolo è il proprio ruolo e rifiutarlo non è un’opzione.
Gli stranieri, da veri stranieri, se lo pongono, perché queste micro-aggressioni risultano snervanti (in quanto ogni giapponese che incrociate per la prima volta vi considera degli stranieri appena scesi dall’aereo e si comporta di conseguenza).
Ma ripeto, il problema nasce se uno vuole rifiutare quel ruolo. Io non mi sono sentito aggredito da quel nihongo ga jouzu desu ne. Ho colto l’occasione per fare due chiacchiere e sono stato grato a quella signora per aver spezzato il ghiaccio in quel modo, altrimenti sarei stato trattato come uno qualsiasi (come vorrebbero i più), ma questo mi avrebbe precluso quella conversazione…

Ben inteso, questo non significa che vada tutto bene così. È chiaro che dopo anni di vita qui uno abbia il diritto d’esser stanco di sentirsi dire certe frasi… Penso però che ci siano altri punti chiave su cui lavorare, come la percezione dello straniero, di cui quanto detto è solo un aspetto secondario.

Se i giapponesi vogliono credere che qualunque straniero arrivi in Giappone non dovrebbe saper parlare giapponese o usare delle bacchette e si stupiscono se vedono che al contrario qualcuno ne è capace… be’, pazienza, è il nostro ruolo di stranieri. Se però lo straniero fa paura perché potrebbe essere un criminale… be’, questo sì che mi ferisce.

Già nel 2010 quando venni in Giappone per la prima volta mi resi conto che non avevo mai capito cosa significhi essere straniero, pur essendo già stato all’estero.
E sempre allora ho capito quanto fosse davvero vergognoso il nostro modo di considerare gli stranieri.
Pensateci… Albanese, rumeno, extracomunitario, marocchino, cinese… Ormai non sono più delle nazionalità, sono delle brutte parole, che evocano qualcosa, un’immagine diversa per ciascuno, ma mai particolarmente piacevole, no?

Qui le cose non sono molto diverse, ma ci si trova dall’altro lato della barricata. Tutti i giapponesi che incontrate per la prima volta penseranno che siate appena scesi dall’aereo (anche se siete qui da 10 anni in realtà)… Certo, può essere un vero fastidio, ma dovendo scegliere mi preoccupa più l’esser seguito dai commessi che pensano “È uno straniero. Gli stranieri vivono in paesi ad altissima criminalità. Gli stranieri sono criminali.”

Arderei d’un sacro fuoco di pura indignazione se solo non sapessi d’aver pensato, anzi… sentito, perlomeno a livello istintuale, qualcosa di simile anch’io.
E allora l’indignazione lascia il posto alla vergogna e penso un po’ d’essermela cercata.
Ad un livello karmico perlomeno XD

Per parafrasare un tipo, di cui non ricordo il nome… È l’umanità, bellezza. Possiamo solo sperare che più persone si interessino ad altre culture, più persone viaggino, più persone si trovino male a loro volta e si vergognino invece di arrabbiarsi.
A quel punto chissà, magari…

Bene, per questa “prima volta” è tutto. La prossima “prima volta”, di cui vi parlerò a breve (l’immagine a inizio post è un piccolo assaggio), riguarda il mio primo 花見 hanami… per cui non perdetevela ^___^

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