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Le alternative a “no” (a parte “sì”)

Attenzione, non solo grammatica in questo post!

Quando vi renderete conto della battuta presente nel titolo, probabilmente vi verrà voglia di uccidermi. E lentamente. Per il momento però sono ancora vivo, alla faccia vostra 😛 , e quindi scrivo.

Allora, sia chiaro, il “no” in questione è la particella の (no), quella che chi ha studiato la mia lezione La particella の (no) del complemento di specificazione, sa bene essere una particella che usa quel che la precede per specificare (spiegare, descrivere…) quel che la segue. Esempi anyone?

Quello che forse non conoscete è un altro dei suoi possibili usi. Rientra nella definizione che ne abbiamo dato, ovviamente, e sebbene non sia l’uso principale, direi che è comunque molto, molto importante (e ci serve parlarne – perlomeno in breve – per arrivare al vero tema dell’articolo).

L’uso in questione riguarda la “descrizione”. Dovete considerare che giapponese e italiano sono lingue lontane e ciò comporta enormi difficoltà nel mettere in corrispondenza, in base al senso, due vocaboli… a volte i vocaboli che a senso sono più vicini non hanno nemmeno lo stesso “ruolo grammaticale”!

Ad esempio, se devo dire a una ragazza “tu mi piaci”, in spagnolo dirò “tu me gustas”, mentre in inglese dirò “I like you”. In spagnolo ho una perfetta corrispondenza con l’italiano, in inglese inizio ad avere un primo problemino: il soggetto in italiano è “tu”, in inglese è io, ma il verbo “piacere” corrisponde comunque a un verbo, “like”… Non è così in giapponese, dove il verbo “piacere” viene sostituito da un aggettivo, 好き suki (il cui soggetto è “tu”).

Qualcosa di non troppo diverso avviene nell’uso di の a cui accennavo prima. Questa particella può infatti prendere dei sostantivi e, dal nostro punto di vista, “trasformarli in aggettivi”.

Ma facciamo degli esempi per chiarire:

…e come vedete dal terzo esempio, anche noi a volte non abbiamo un aggettivo appropriato (“notizie mondiali” non suona granché bene, no?) e ci ritroviamo a usare un’espressione un po’ più complessa di un banale aggettivo.

Perfetto, penso che ci siamo capiti su questo の “no” che “crea” (per noi) degli aggettivi.

Veniamo al tema del post (Era ora! – dirà qualcuno… Lo so, Gianni, hai ragione, scusa!).

Non sempre si usa la particella の (no). La particella の nei suoi usi di specificazione, descrizione ecc. viene – di rado – sostituita da altre particelle. Talmente di rado, però, che sono sicuro che il vostro libro di testo non ve ne parli affatto.

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1. La particella が (ga)


La particella が (ga) ha un interessante “rapporto” con la particella の (no). Quest’ultima sostituisce が (ga) come particella che indica il soggetto nelle frasi relative, Viceversa la particella が (ga) raramente –  ma neanche troppo – sostituisce の (no) in alcune espressioni e parole. O meglio, nel caso di quelle che un tempo erano espressioni e oramai sono rimaste nella lingua come “parole composte”, nomi propri…

Un primo “gruppo di esempi” è dato dalle “parole che iniziano con waga”.

我が家, wagaya, 我が国 , wagakuni, 我が子, wagako, per indicare la propria (intesa come “mia” o “nostra”) casa, nazione, prole. Oramai sono usati come fossero parole uniche, ma in origine erano ovviamente un’espressione: “la casa di me”, “la nazione di me”, “il/la figlio/a di me”.

Nei drama e nei film di “cappa e spada” a la giapponese (si usa il termine ちゃんばら chanbara), e più in generale nelle opere di carattere storico, sentirete spesso questo “waga…”. Ad esempio sono molto comuni termini come 我が君 wa ga kimi (mio signore), 我が身 wa ga mi (letteralmente “il mio corpo” è un modo di riferirsi a sé) e anche il famoso 我が輩 wagahai.

Ok, wagahai forse non è poi così famoso, ma forse avete sentito parlare del romanzo di Natsume Souseki, “Io sono un gatto” (wagahai wa neko dearu). Detto tra parentesi, odio questa traduzione. Penso sarebbe stato meglio qualcosa come “Io sono Sua Eccellenza il Gatto” o un pluralis maiestatis “Noi siamo un gatto” (difatti wagahai È un pluralis maiestatis, usato per darsi importanza), o qualunque altra cosa che non facesse perdere il senso di “wagahai”.

Se ne avete sentito parlare, forse sapete anche che il titolo originale è 吾輩は猫である “wagahai neko dearu”. Sì, cambia il kanji di wagahai e sparisce l’hiragana di “ga” (cose che capitano), ma va detto che, a prescindere dal kanji, ha lo stesso significato. Inoltre, a proposito del secondo dubbio, considerate che wagahai si scrive anche 我が輩 o 我輩 (con il “ga” incorporato nella pronuncia del primo kanji). Infine, concedetemelo, non sottilizziamo troppo: ci importa poco del kanji perché il punto è l’uso di “wa ga” con “ga” in sostituzione di “no”, per intendere “di me” e quindi “mio” (poiché “hai”/”tomogara” significa “compagno”, tradurrò “miei compagni” e quindi “noi”, ma inteso come pluralis maiestatis “Noi”, così come oggigiorno fanno i rettori delle Università e il Papa nei documenti ufficiali.

Un secondo gruppo di parole è quello dei nomi di luogo (e pochi altri), dove il simbolo ヶ, letto “ga” (anche se assomiglia a un piccolo “ke” del katakana), ha proprio la funzione di sostituire il の creando un complemento di specificazione.

Il luogo più famoso, di cui sentirete per forza parlare prima o poi, è 関ヶ原 sekigahara, il luogo dove Tokugawa Ieyasu vinse sul campo, nel 1600, la supremazia sul Giappone e, di fatto, sull’imperatore, appropriandosi del titolo di 将軍 shougun e assicurando alla sua dinastia 200 anni di “regno”.

Ma veniamo al nostro termine. Potremmo tradurlo “La piana della barriera” (un casello dell’autostrada è a volte definito “barriera” e io intendo “barriera” in questo senso). Uso il termine “piana” nel senso di pianura, che posso chiamare 平原 heigen (pianura) o 野原 nohara (prateria, campagna, prati) a seconda della sfumatura di senso (come vedete condividono il kanji di “hara” di sekigahara).

ll primo kanji di 関ヶ原 è 関 seki, che significa appunto “barriera” (il termine completo sarebbe 関所 sekisho, ma il secondo kanji significa solo “luogo”). Dovete pensare a un posto che era un incrocio tra una dogana, il controllo passaporti, quello dei bagagli e, perché no, un casello dell’autostrada con annesso autogrill …o meglio, una “stazione di posta”, dove rinfocillarsi, far mangare e bere i cavalli, se se ne aveva, e magari passare la notte sotto un tetto, tanto per cambiare. “Locande” del genere erano dette 宿 yado, un kanji che ancora oggi ritroviamo spesso, ad esempio in 関ヶ原宿 sekigahara-juku, nella stessa, famosissima, 原宿 harajuku, nel termine 民宿 minshuku, gli alberghetti-tipo-B&B a conduzione familiare.

Insomma, si veniva controllati e si pagava una tassa per il transito lungo una strada, detta 東海道 toukaidou che era una delle grandi “arterie” del paese. Queste stazioni erano addirittura 53 lungo la Toukaidou, ma la “barriera” di Sekigahara, che esiste ancora oggi, era importante ed è stato teatro dellagrande battaglia di cui sopra perché era de facto il confine tra le due famose regioni ancora oggi note come 関東 kantou (la “regione” dove si trova Tokyo) e 関西 kansai (la “regione” dove si trova Osaka)… i cui nomi, se li osservate bene, non significano altro che “ad Est della barriera” (関東 kantou) e “ad Ovest della barriera” (関西 kansai).

Ci sono ovviamente altri posti con questo “ga” di specificazione. Luoghi abbastanza famosi di Tokyo sono 市ヶ谷 ichigaya, 鳩ヶ谷 hatogaya… O ancora 世田谷 setagaya, che ci permette di notare come il “ga” di specificazione possa “sparire” come in wagahai (e come il “no”, specie in nomi propri). E infine si ritrova in luoghi come 自由が丘 jiyuugaoka e 光が丘 hikarigaoka, dove vediamo che non sempre si usa il simbolo ヶ a volte si può usare anche il semplice が (l’origine e il senso sono identici).

Ma attenzione, non ci sono solo i nomi di luogo… La varietà di tè detta kukicha è nota anche come karigane, cioè 雁が音, che, non chiedetemi perché, letteralmente tradotto sarebbe “il verso dell’oca selvatica” (雁 kari = oca selvatica, が = の no, mentre 音 ne è il kanji di “oto”, cioè “suono”).

Infine un ultimo esempio è quello della parola 万が一 mangaichi (o, più di rado, 万一 man’ichi). È costruita come una frazione… sì, parleremo un attimo di matematica, ma non fuggite. Le frazioni in giapponese si leggono partendo dal denominatore con 分 bun, seguito da の no e dal numeratore. Dunque 四分の一 yonbun no ichi significa “un quarto” (con yon = 4 e ichi = 1), ovvero “una di quattro parti”.

L’espressione mangaichi è molto simile, se considerate che il no è sostituito da ga. Sì, sparisce il bun, ma d’altronde il senso non è “un decimillesimo”, bensì “uno su diecimila”. Infatti è di questo che si parla, di “un (caso) su diecimila”. La traduzione meno letterale, invece, è qualcosa tipo “nello sventurato caso” o “nella peggiore delle ipotesi”. In genere il raro caso in questione è un evento negativo, ma c’è anche un’idea di “raro evento”, senza sfumatura negativa, come avviene con il verbo tanomu nell’espressione 万一を頼む man’ichi wo tanomu, sperare in un colpo di fortuna. Di solito si trova nella forma man’ichi wo tanonde oppure man’ichi wo tanomi ni e viene tradotto con “tanto per” o “(tanto) per sicurezza”, “tanto per esser (o “star”) sicuri (o “tranquilli”). In questo caso assomiglia molto all’espressione, più comune, 念のため nen no tame.

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2. La particella つ (tsu)


Anche la “particella tsu” si incontra a volte, seppur di rado. Mi vengono in mente due esempi. Il primo dei quali riguarda l’etimologia della parola まつげ matsuge, ciglia (a volte è scritto まつ毛, 睫, 睫毛, si attribuisce cioè un kanji a “matsu” o all’intera parola “matsuge”, ma ciò non c’entra con l’etimologia).

Poiché da quanto detto finora avrete ormai capito che つ tsu = の no, possiamo leggere questa parola come “ma no ke” (il “ge” in matsuge è una sonorizzazione della lettura più comune del kanji 毛 ke, appunto). A ciò aggiungiamo che una pronuncia, ormai rara, di 目 me, occhio, è “ma”.

Risultato? “me no ke” e quindi “i peli dell’occhio”, ricordando che:

C’è poi un altro esempio che posso farvi… Conoscete l’acclamatissimo anime 蟲師 Mushishi? Un episodio della prima serie si intitola 沖つ宮 okitsumiya, che possiamo rendere come “il tempio in mare aperto” (lo suggerisce anche il sottotitolo, poiché queste regole non sono esattamente note per il giapponese comune).

Indovinate un po’? 沖 oki indica il mare (mare aperto, a largo), 宮 indica un luogo di grande importanza, quasi o effettivamente sacro, come un tempio o un castello; a volte, per estensione, era usato per rivolgersi in modo indiretto a principi e principesse (l’origine del cognome “ninomiya” è 二の宮 il termine usato per un principe secondo genito). Infine abbiamo つ tsu, che significa appunto “no”.

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3. La particella だ (da)


È forse il caso più raro. L’unico “esempio palese” che mi venga in mente è l’origine del termine kedamono, alternativa un po’ “aulica” a 獣 kemono (che sentiamo però più che altro in riferimento a un uomo che si comporta come una bestia).

Come detto kemono ha un suo kanji (e la pronuncia alternativa kedamono), ma l’origine del termine giapponese è palese: 毛の物 ke no mono, “cosa pelosa”… o, omettendo “no”, possiamo riscrivere 毛物 kemono. Se invece in 毛の物 ke no mono sostituiamo “no” con “da” otteniamo il nostro “kedamono”.

Un esempio “meno palese” è la parola 果物 kudamono. Il primo kanji è messo lì per il suo senso, ma non ha a che fare con l’origine della parola, che è invece 木だ物 ku da mono, “cosa dell’albero”. Dico che si tratta di un esempio non palese perché la pronucia moderna del kanji di albero 木 è oggi “ki” (e talvolta “ko”), quindi come esempio sarà forse un po’ spiazzante.

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4. La scomparsa di の (no)


Chiudiamo la nostra carrellata con “la scomparsa di の”. Se guardiamo a certi nomi, specie di persona e luoghi, vediamo che la particella “no” può:

Bene, direi che ho concluso questa lunga carrellata, spero di non avervi annoiato e di aver addirittura acceso l’interesse di qualcuno… Se così fosse mi farebbe piacere leggerlo nei commenti. Alla prossima! ^__^

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