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Kenkou otaku (i fanatici della salute)

kenkou otaku 1Di certo pensavate tutti che ai giapponesi – notoriamente benedetti da assenza di calvizia, obesità, rughe e invecchiamento precoce, ecc. – bastasse mangiare un po’ di sushi per condurre una vita sana, all’insegna della leggerezza e della bellezza.

Be’, se è questo che pensavate (lo so che esagero, ragazzi), vi sbagliate: c’è molta fatica dietro. E un enorme sperpero di denaro in mille prodotti diversi, uno più improbabile dell’altro.

C’è perfino una “categoria” ad hoc di otaku (parola che, un po’ impropriamente, tradurremo “fanatici”), i cosiddetti 健康オタク kenkou otaku (gli otaku della salute).

Vanno però chiariti alcuni punti importanti che aiutano a capire questo “fenomeno sociale” e spiegano il perché dell’importanza e dell’enfasi posta sul concetto di “salute”.

Innanzitutto (1) per i giapponesi i due concetti di salute e bellezza sono legati tra loro più di quanto non lo siano per noi occidentali. Inoltre (2) gli stessi due concetti sono legati a un terzo, “insospettabile”: il lavoro. Ci sono poi altri punti, ma li vedremo a tempo debito.

1. Salute = Bellezza

Se si è in salute non si può non essere belli e non si è belli se non si è in salute. È una concezione che ricorda il concetto, in voga nell’antica Grecia, del καλος και αγαθος (kalòs kai agathòs), tramandatoci da Omero (lett. “bravo e bello”, è un’espressione usata per implicare che la bellezza fisica riflette una bellezza interiore, e viceversa; quindi, per contro, una persona brutta è anche una brutta persona, quanto a personalità).

Non posso portarvi delle “prove”, a parte la mia esperienza, dovrete quindi accontentarvi dell’immagine qui sopra, dove vedete la “persona bella”, con tanto di stelline che brillano intorno al viso, che viene definita “kenkou otaku” da un persona che kenkou otaku non è e vede sé stessa come brutta (quella sulla destra è la “padrona del blog”).

2. La salute è una propria responsabilità (nulla a che fare con i diritti)

Si possono leggere “manuali di comportamento del perfetto impiegato” in cui è spiegato come la scusa della malattia non è più accettabile, una volta terminata la scuola e fatto il proprio “ingresso in società”. Ben inteso, non parlo in senso letterale di una “scusa”, ma di un vero e proprio malanno che, tanto per capirci, ci costringerebbe al riposo forzato, in qualunque altro paese del mondo, anche qualora volessimo ardentemente andare a lavoro piuttosto che stare così male.

Cioè? – direte voi. Cioè non è accettabile telefonare al capo e dire “sto male, non vengo”, perché gestire la propria salute è parte integrante del proprio lavoro. Se ci si ammala è perché non si è fatto correttamente il proprio lavoro, insomma, e si meriterebbe piuttosto una punizione, non dei giorni di malattia. Il problema non si pone però, perché in Giappone, a parte che per gli impiegati “veri e propri” detti 正社員 seishain, tutti gli altri lavoratori, ovvero sia アルバイト (ar)baito, パート paato(taimaa) e 派遣社員 haken shain (lavoratori “a cottimo”, part-time e temporanei), non esiste un lusso come quello dei “giorni di malattia”: la malattia significa spesso licenziamento (a meno che sia breve e il datore di lavoro non abbia rimpiazzi disponibili). Se a ciò aggiungete che un terzo delle spese mediche, quello che lo Stato non paga ed è a carico della persona, viene pagato dal datore di lavoro, potete capire la gravità della cosa e la paura di ammalarsi.

Quel che è difficile da capire invece è perché la malattia sia una responsabilità dell’individuo e perché la gestione della propria saluta si possa considerare parte del proprio lavoro.

Ciò deriva dalla convinzione che ogni malattia sia in qualche modo “comportamentale” (cioè che ci si ammali per via del proprio “comportamento a rischio”). Sia chiaro, però, che non sto parlando di una qualche retribuzione karmica dovuta alle proprie malefatte, bensì a un’ancestrale credenza – presente perlomeno in Cina e Giappone (ma sospetto anche in varie altre parti dell’Oriente) – secondo cui dal proprio stile di vita dipende interamente la propria salute. Cosa che comporta assurde convinzioni, anche di gente acculturata, che ritiene che mangiando correttamente e dormendo bene, anche se esposti al prossimo virus influenzale, non si ammaleranno.

“E se uno si ammala lo stesso?”

Ricordo di aver chiesto, mentre mi trovavo in Giappone: “E se uno si ammala lo stesso?” E lo dissi con tutta la (finta) ingenuità che potevo ostentare, attanagliato però da una curiosità del tutto reale.

Per i meno informati devo specificare che la risposta del proprio organismo a un virus dipende dalla “familiarità” del proprio sistema immunitario con quel virus. Noi conosciamo l’influenza come un banale malanno, ma il livello della sua pericolosità dipende dal “ceppo” della malattia e dai progressi della medicina. Diciamolo, per chiarezza, con un esempio: tra il 1918 e il 1920 l’influenza spagnola uccise tra 50 e 100 milioni in tutto il mondo, cosa che NON si sarebbe potuta evitare con la buona alimentazione e un sonno regolare.

Mi chiedevo, dunque, come i giapponesi possano giustificare la possibilità che ci si ammali nonostante tutte le precauzioni possibili. Semplicemente non lo fanno. Se si ammalano, ritengono sia colpa loro, perché non hanno fatto abbastanza per prevenire la malattia; quindi andranno comunque a lavoro con la febbre alta e la mascherina, imbottiti di farmaci e/o rimedi cinesi (a seconda delle convinzioni personali), sentendosi in colpa perché in quei giorni non potranno lavorare al top della loro condizione (e, badate bene, non invento nulla, si tratta delle precise parole – e sentite(?) scuse – di una mia sensei).

Io tendo sempre a fare la tara in casi simili, cercando cioè di distinguere tra il semplice luogo comune e il vero fattore culturale. Non posso essere certo, dunque, che questa non sia solo la narrazione che se ne fa e le persone non pensino davvero nulla di tutto ciò. Perlomeno pubblicamente, però, è questo quel che vi sentireste dire, in genere, parlando con un giapponese. Una bella differenza rispetto al nostro punto di vista di occidentali, per cui, così come i giorni di malattia, anche la salute è un diritto …o un lusso (d’altronde si tratta pure qui di una questione di punti di vista).

3. Horror adipis (il terrore del grasso)

Scusate il gioco di parole con horror vacui (il terrore del vuoto), ma lo vedo quantomeno appropriato. Non potete immaginare da quanto tempo la televisione giapponese insista con programmi che propinano diete, rimedi miracolosi, storie di incredibili dimagrimenti e quant’altro, tutto nella più assoluta e disinteressata irresponsabilità sociale.

Negli anni si sono venute a creare due situazioni gravissime, nell’indifferenza generale, temo. Da un lato il terrore del grasso, di cui sopra, ha portato ovviamente ad un’ondata, specie nelle giovani generazioni, di anoressia (e anche di bulimia, presumo). Dall’altro, il paese si è trovato impreparato di fronte a una simile impennata nelle casistiche di queste malattie e, di conseguenza, privo del numero necessario di medici dell’alimentazione (serve quasi un decennio per formare un medico, quindi è quasi impossibile cogliere i segnali dell’emergenza e “prepararsi”).

Il risultato è che – a quanto leggevo in un articolo qualche anno fa – per avere un appuntamento con uno specialista può passare un anno o più, il che, in casi simili, può significare anche la morte del paziente.

Ma non devo citarvi nulla, né casistiche, né articoli, dato che posso riferirmi alla mia esperienza personale: vi assicuro che camminando per le strade di Tokyo (e vi ho camminato parecchio) si vedono un gran numero di ragazze troppo magre.

Non posso parlare di anoressia perché non sono un medico, ma posso dire, da uomo, che avevano superato il limite della “magrezza estetica” e perfino di ciò che può ancora essere considerata una “salutare dieta stretta”: ormai il solo guardarle dava quella sensazione mista di disagio e apprensione per la loro salute. Nulla che avesse a che fare con la bellezza, insomma.

4. La bellezza, il lavoro e i cosmetici da uomo

Si è arrivati al punto che anche la ricerca del lavoro risulta fortemente influenzata dall’aspetto. Forse un fatto naturale per un popolo che, culturalmente, come ci testimonia il detto Fukusou no midare wa kokoro no midare, ritiene che l’aspetto esteriore – o perlomeno il vestito – rifletta l’animo di una persona.

A riprova basti considerare che le foto sono d’obbligo nei curriculum vitae, che i “manuali del perfetto impiegato”, di cui sopra, riportano sempre una sezione dedicata all’aspetto e che le sezioni dei cosmetici da uomo nei negozi sono fornite tanto quanto lo sono le sezioni per la clientela femminile… Accidenti, ho sentito perfino un’intervista di due ex teppistelli (ヤンキー yankii), con uno che concedeva di fare un moderato uso di cosmetici e l’altro che negava la cosa, salvo poi “scoprire” che anche il burro di cacao, questo e quell’altro erano considerati “trattamenti cosmetici”.

Se volete approfondire l’argomento cosmetici… be’, diciamo strani cosmetici, vi consiglio l’articolo Stranezze Giapponesi (19) – Prodotti di bellezza per fanatici, dove troverete una carrellata di immagini davvero “interessanti”! ^__^;;

5. Horror solis (la paura del sole)

Ci risiamo col gioco di parole! – direte voi adirati. Ok, ok, scusate, mea culpa. Il fatto è che i giapponesi (ancora più che altro LE giapponesi, ma ci arriveremo) hanno un altro terrore: quello della luce del sole. No, non sto dicendo siano un clan di vampiri, al massimo dei salutisti un po’ snob. Ma mi spiego meglio.

Non so se siate mai stati in Giappone in estate, specie in un periodo di sole intenso. In Giapponi (e altri paesi vicini, tra cui la Cina) si ritiene, come un tempo da noi, che il colorito bianco sia bellissimo, specie per una donna. Così mentre noi ci ammazziamo di tintarelle (in senso letterale, perché i danni al DNA della pelle sono cumulativi e quindi, per metterla giù semplicemente, troppo sole = cancro), le giapponesi, spesso assunte nel mondo a simbolo di assoluta femminilità e bellezza, evitano il sole con tutti i mezzi possibili, alcuni dei quali risultano anche un po’ comici.

Ci sono anche versioni meno estreme, ma comunque comiche per noi occidentali. Un esempio è il classico completo pantaloni lunghi, guanti fino alla spalla (collegati dietro la schiena), maschera da saldatore (o almeno questo è l’aspetto) e berretto… o in alternativa cappello a tesa larga, grandi occhiali da sole e ombrello anti-raggi UV. Perfino il cappello che vedete qui sotto, e parlo per esperienza, non si nota poi così di rado a Kyoto, ad esempio (tanto per citarvi una città più a Sud di Tokyo, dove sono stato un paio di volte e ho visto di questi cappelli).

Il nostro concetto di bellezza è cambiato, ma qualche decennio fa si associava l’odierna “tintarella” alla vita dei campi e quindi a una vita povera e poco dignitosa.

La cosa più probabile è che il modello di bellezza in Cina, Giappone, ecc. sia dettato da film e altri media occidentali. Sì, ciò sembra contrastare con quanto detto poco sopra, ma anche nell’abbronzatura ci sono “livelli” e punti di vista. Per capirci, mia moglie, un po’ fissata con il non esporsi al sole e con lo sbiancamento della pelle, considera “bianchissimo” me, che ho un normale colorito, da ragazzo un po’ abbronzato (ma ricordate che vivo a Milano), mentre si sbalordisce nel vedere le persone che noi occidentali consideriamo davvero “bianche” (pensata a qualcuno con i capelli rossi naturali e penso che capirete che intendo); superato lo stupore per i capelli rossi (il rosso ha anche una valenza particolare per i cinesi), inizia una serie di complimenti intervallati puntualmente da 羨ましい (urayamashii), ovvero sia “che invidia…!”. A questo punto mi chiedo che penserebbe vedendo un albino…

Ad ogni modo, se vi piace l’argomento, vi consiglio di dare un’occhiata a Lo sapevate? – Il sole del Giappone: rosso e cattivo!

6. Conclusione

Date simili premesse, in un paese ossessionato da questi tre aspetti, bellezza, salute e lavoro, è comprensibile come sia tanto di moda il kenkou otaku ed è altrettanto comprensibile perché fiorisca il business dei prodotti che vi gira attorno, dai farmaci, integratori e non, ai più assurdi strumenti di bellezza.

Non ho avuto l’impressione che tutto ciò coinvolga il business delle palestre, che penso sia più fiorente da noi, ma questo probabilmente perché i modelli di bellezza non sono “aggressivi” come da noi. L’uomo non fa sfoggio di muscoli, così come le donne non cercano di fare sfoggio di curve incredibilmente ardite. Certo, potrebbe esserci in gioco anche un fattore genetico e/o io potrei sbagliarmi sullo scarso interesse per le palestre…

Bene, un lungo articolo, ma spero che lo abbiate trovato interessante. Sapevate già dell’esistenza dei kenkou otaku? E del termine in questione? Qualcosa in particolare vi ha stupito e/o vorreste che fosse approfondita? Fatemi sapere ^__^

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