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Capire il Giappone – La seconda regola della società giapponese

Oggi nell’affrontare la seconda regola della società giapponese, continuiamo a parlare di “gruppo”. La volta scorsa il tema era “il gruppo prima del singolo”, oggi guardiamo ai legami entro il gruppo e al rapporto tra interno ed esterno del gruppo, i “famosi” 内 uchi e 外 soto.

Se vi foste persi gli articoli precedenti, andateli a leggere o il rischio è che non ci capiamo…

  1. Missione impossibile: Capire il Giappone
  2. Capire il Giappone – La prima regola della società giapponese

Se non vi siete persi niente, perfetto, continuate pure 😉

Nel precedente articolo abbiamo parlato di come l’individuo, per i giapponesi, esista solo nel gruppo e in relazione con il gruppo, e che per il gruppo stesso vale il medesimo principio, in quanto esiste solo entro un gruppo più grande ed in relazione con esso.

Un esempio perfetto a tal proposito è quello riportato in Japanese Beyond Words: How to Walk and Talk Like a Native Speaker, uno splendido libro divulgativo sul Giappone, scritto da un traduttore di giapponese. In breve, un uomo impiegato in un’azienda confida all’autore che vorrebbe cambiare azienda, avendo ottenuto un’offerta migliore; alla fine però sceglie di non farlo perché altrimenti “gli studenti provenienti dalla sua stessa università avrebbero avuto maggiori difficoltà a trovare lavoro nella sua attuale azienda”.

I questa affermazione ritroviamo in toto i concetti giapponesi di individuo, gruppo e del rapporto tra individuo e gruppo.

L’uomo in questione compie infatti una scelta che lo penalizza come individuo sentendo una responsabilità verso gli studenti della sua stessa università, poiché si sente parte del gruppo “laureati dell’università XXX”. Si trova quasi costretto a compiere questa scelta perché sa che guardando alle sue azioni l’azienda giudicherà l’intero gruppo cui appartiene: Tizio ha tradito l’azienda, quindi anche i laureati della sua stessa università sono potenziali “traditori”, quindi non li assumiamo se possibile.

Attenzione, questo giudicare l’intero gruppo dalle azioni del singolo (e viceversa) è un modo di fare considerato discriminatorio in Occidente (dove questa è la definizione stessa di “razzismo”), ma del tutto normale e accettato in Giappone, Cina e altri paesi dell’Asia.

Sembra assurdo giudicare tutti i laureati di un’università dalle azioni di un singolo… è un gruppo troppo grande per essere omogeneo. Ma siamo onesti, cosa facciamo noi quando diciamo “Eh, i francesi sono così…” o pensiamo “i romeni rubano” ecc. ecc. Senza considerare poi che in Giappone l’idea del giudicare il gruppo dal singolo e viceversa è un’idea culturalmente accettata, come ho detto nell’articolo, arricchito, quasi riscritto per l’occasione, Portatori sani di razzismo.

Ma lasciamo il razzismo e veniamo all’argomento di oggi. Oggi infatti entriamo nel gruppo per vedere le interazioni entro il gruppo e con l’esterno.

2. Seconda regola: Tessere legami dentro e fuori dal gruppo

Le “interazioni all’interno di un gruppo”

Queste “interazioni” sono i legami che vengono a crearsi tra individui dello stesso gruppo sociale,

Curare le relazioni personali in Giappone è importantissimo (abbiamo già parlato di kinjo meiwaku, ricordate?). Il concetto di armonia, cui dedicheremo un articolo a parte è altrettanto importante qui, ma per ora concentriamoci sulle relazioni intepersonali e basta.

Alcuni esempi si ritrovano proprio nelle relazioni con i vicini. Personalmente io dico solo buongiorno e buonasera… e sarà così anche in Giappone a volte, ma la tradizione è un’altra cosa.

Se si trasloca di solito si va a salutare i nuovi vicini, con dei regali. Tradizionalmente si dovrebbe portare dei soba (una specie di pasta), detti hikkoshisoba (hikkoshi = trasloco)… Ma è solo un esempio.

I “regali” sono davvero un fattore molto importante nella cultura giapponese. Esempi molto interessanti sono quelli sul posto di lavoro. Non solo a scuola, tra amici, come forse avete visto in qualche anime o drama, ma anche sul posto di lavoro le donne regalano ai colleghi del cioccolato per San Valentino. Si parla di 義理チョコ giri-choko, “cioccolato (dato) per dovere”.

Altri regali, forse più seri – ma in Giappone ogni occasione è buona per farsi regali – sono quelli di お中元 o-chuugen e お歳暮 o-seibo. In questi periodi (rispettivamente metà estate e fine anno) si fanno regali alle “persone con cui siamo in debito” (お世話になった人 osewa ni natta hito è in realtà un concetto più ampio del “debito” in questione, riguarda chi “si è preso cura di noi” …anche in modi anche impercettibili per la nostra sensibilità, o potrebbe non aver fatto nulla per noi, in realtà, ma vuoi non fare un regalo al tuo capo a lavoro anche se è uno str- coughcough…?).

Ma allontaniamoci dal tema “regali”.

Se vedete anime o drama potreste sentir parlare di giornate in cui gli abitanti di una certa zona si mettono d’accordo per fare le pulizie del quartiere …non è che non abbiano gli operatori ecologici, ma si vede che non gli basta.

Scherzi a parte, più che per l’ambiente, come si fa da noi, si partecipa (anche/solo?) per la comunità e per dimostrare che si tiene allo spazio comune e quindi alla comunità stessa.

Non a caso nelle zone residenziali si vedono sempre iniziative di quartiere (a volte riprese negli slogan da politici), che riportano la parola 街作り/町作り machizukuri (in kana まちづくり). Letteralmente si tratta della “costruzione” di una zona (residenziale)/città; potreste avere l’impressione che si parli di edilizia, ma non è così! In effetti il riferimento è alla comunità di persone, alla costruzione di una comunità come gruppo di persone legate, non estranei che vivono vicini… Quindi alla fin fine di comitati che si occupano di proporre e portare avanti miglioramenti del quartiere: dalle pulizie descritte sopra, al proporre la costruzione di un parchetto, l’installazione di un semaforo…

E nella lingua? Dove si vedono le relazioni tra persone? Nel verbo “dare”. Anzi, nei verbi “dare”, al plurale! Sì, perché ne esistono due: くれる kureru e あげる ageru.

  1.  くれる kureru significa “dare”, ma solo quando qualcuno dà a me
  2.  あげる ageru significa “dare”, ma solo quando io do a qualcun’altro

Si parla spesso, in proposito, di “verbi direzionali”. Ecco perché nell’immagine di inizio articolo trovate quei pallini (i vari individui) e tutte quelle frecce: una freccia verso l’esterno è un verbo ageru, una verso l’interno è un kureru. L’azione di “dare” è la medesima, ma le relazioni tra le persone sono così importanti che i due concetti “io do a te” e “tu dai a me” sono considerati sostanzialmente diversi e quindi non possono, in giapponese, essere resi allo stesso modo.

Va detto che usando kureru e ageru come ausiliari questi concetti si possono allargare a un’infinità di azioni, che di volta in volta vengono percepite come un “favore” ricevuto o fatto. Tutto ciò è molto importante e significativo, ma non voglio trasformare l’articolo in una lezione di grammatica, quindi passiamo a…

Le “interazioni con l’esterno del gruppo”

Queste invece sono ben rappresentate… ancora dai nostri verbi kureru e ageru!

Com’è possibile? – direte voi.

È possibile perché non ci sono solo “l’io” e “gli altri”. In Giappone sono molto importanti i concetti di 内 uchi e di 外 soto, cioè, rispettivamente, l’interno e l’esterno (del gruppo, ovviamente).

L’uchi è in sostanza il gruppo di persone più vicine all’ “io”, mentre il soto è il gruppo di persone più lontane. Non sono gruppi ben definiti, in realtà, ma sfumati. Per esempio mio fratello mi è più vicino di un mio amico …che a sua volta mi è più vicino di un conoscente, che a sua volta mi è più vicino dal mio boss a lavoro (che è semplicemente “lontano da me”, ma “lontano… in verticale”, per cui lo conosco meglio di un estraneo e mabari di un conoscente, ma essendo più in alto… Ad ogni modo, di “società verticale” riparleremo in seguito).

Insomma, alla fine della fiera, l’idea di chi ci è vicino e chi no è molto relativa. In fondo anche noi se siamo all’estero sentiamo una strana “attrazione” verso altri italiani (certo, tutto dipende dalle persone e dalla situazione), un istinto a rivolgergli la parola, identificarci come “compagni (italiani) di ventura”… anche se in patria non gli avremmo di certo rivolto la parola.

Ma torniamo alla lingua che ci insegna la cultura giapponese e le regole della sua società. Kureru e ageru ci permettono di accorgerci che di fronte a qualcuno di “esterno” (il soto), non c’è differenza tra l’ “io” e il gruppo, l’uchi. Difatti un’azione “dare” che esce dai confini del gruppo è resa con “ageru” (come se la facessi io), una che dall’esterno va verso un membro del gruppo è resa con “kureru” (come se fossi proprio io a riceverla).

Se dico che “un estraneo dà qualcosa a me” o se dico che “un estraneo dà qualcosa a mio fratello” è la stessa identica cosa: io sono al centro del mio gruppo, ma di fronte all’estraneo non c’è differenza tra me e il mio gruppo; salendo al massimo nella scala possiamo arrivare a dire che per i giapponesi di fronte allo straniero non c’è differenza tra il singolo individuo e l’intero Giappone (anche se questo aspetto era molto più forte prima della fine dell’ultima guerra). Non che in gradi diversi non sia presente quest’idea in altri paesi… Se uno straniero loda la cucina italiana non vi sentite orgogliosi?

Ok, è tutto. Sperso sia stata una lettura interessante… じゃあな~ (Alla prossima!)

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