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FAQ – Com’è nata la lingua giapponese scritta?

kanbun

Oggi proveremo a rispondere a una domanda molto difficile… quella del titolo, ovvero come è nata la lingua giapponese scritta.

Non è assolutamente qualcosa di tanto semplice da poter sperare di rispondere perfettamente in poche righe, ma possiamo sacrificare un po’ di tecnicismi e parole difficili a tutto vantaggio della chiarezza e della brevità (sì, che ci crediate o no, l’articolo che segue è una versione sintetica).

Proverò a spiegare anche, nel modo più semplice possibile spero, alcuni dei punti meno affrontati di solito e che spesso incuriosiscono gli studenti: chiariremo da dove vengono le pronunce on e kun, perché vanno studiate entrambe e perché sono nati e servono tutt’oggi i kana, hiragana e katakana.

Partiamo da ciò che si dice più comunemente.

Il giapponese ha tre sistemi di scrittura, hiragana, katakana e kanji. I kana, ovvero hiragana e katakana sono propri del giapponese. I primi hanno tratti curvilinei e sembrano più complessi, i secondi hanno meno tratti, che appaiono più netti e decisi, con meno curve (sembra che li si possa incidere con il coltello).

Per quanto riguarda i kanji, i giapponesi li importarono dalla Cina a partire, forse, dal V secolo dopo Cristo (insieme al Confucianesimo). Dico “a partire” quindi ciò significa che furono importati in epoche diverse, oltre che da diverse regioni.

Oggigiorno un kanji si presenta spesso con più pronunce. Queste sono divise in “pronunce di origine cinese” e “pronunce di origine giapponese”.

Nel corso dell’articolo, vedrete, ci metteremo nei panni dei giapponesi dell’epoca e immagineremo di dover importare i caratteri cinesi in Italia. Il Giappone però non si limitò a importare i kanji per sopperire alla propria mancanza di un sistema di scrittura, importò l’intera lingua cinese, che divenne la lingua colta (un po’ come da noi lo fu per lungo tempo il latino… e durante l’impero Romano lo fu il greco).

Quindi diciamo che innanzitutto  vogliamo che il cinese, tra noi nobili iniziati, divenga la lingua colta. Avremo due esigenze per poterlo diffondere. Segnalare la pronuncia dei caratteri e segnalare il significato di ciascuno.

Come siamo arrivati alla pronuncia ON?

Proseguiamo nel nostro esperimento e prendiamo ad esempio i caratteri di amore e persona: 愛人. In cinese sono trascritti ai-ren, ma la pronuncia al nostro orecchio è qualcosa di simile a ai-jen (con una J molto “arrotata”).

Indicheremo così in piccolo sopra questi kanji la loro pronuncia, ai e jen, rispettivamente… be’, possiamo farlo perché l’italiano ha già delle lettere, ma immaginiamo la situazione giapponese del tempo: non c’era una lingua scritta, è questo il punto.

I giapponesi, quindi, non potendo scrivere la pronuncia in lettere, usarono dapprima dei kanji per indicarne il suono (si chiamano man’yougana), kanji che furono poi “ridotti” a semplici frammenti di essi, i.e. gli attuali katakana (i katakana nascono per essere piccoli e per poter indicare così la pronuncia di un kanji in un testo).

Così in un testo cinese passato di mano in mano tra nobili, religiosi e letterati del tempo avremmo potuto vedere i kanji 愛人 (per quanto all’inizio i testi su cui si indicava così la pronuncia erano perlopiù scritture buddiste importate dalla Cina, quindi forse non avremmo visto questa parola) e sopra di essi la migliore approssimazione della pronuncia cinese di allora (la migliore che riuscisse ai giapponesi, si intende), scritta in katakana, in questo caso: アイ e ジン (ai e jin). Così è nata la pronuncia ON del giapponese moderno.

Ma come si spiega il fatto che la pronuncia cinese e la pronuncia di origine cinese dello stesso kanji, in giapponese, spesso e volentieri non sono nemmeno simili?

Ad esempio, prendiamo la parola 火山 ka zan (vulcano). La sua pronuncia cinese è huo shan. Se la pronuncia del secondo kanji (in giapponese san, che qui diviene zan per ragioni eufonetiche) risulta relativamente simile alla pronuncia cinese shan, nel caso del primo kanji non è così. Abbiamo “ka” in giapponese e “huo” in cinese.

Tutto dipende dal fatto che i kanji sono stati importati in epoche diverse e da regioni diverse della Cina, quindi un kanji importato magari mille anni fa si ritrova una pronuncia di origine cinese che era approssimazione della pronuncia di quell’epoca e di quella zona. Nel frattempo però in Cina il cinese si è evoluto per conto suo, originando dei cambiamenti nella pronuncia, magari perché un dialetto si è imposto su un altro insieme all’affermazione di una particolare etnia. A volte il kanji stesso avrà cambiato significato col passare del tempo in Cina, ma non in Giappone (o viceversa), a volte potrei aver avuto una confusione al momento dell’importazione di quel kanji, sulla pronuncia, sul significato o entrambe le cose… Per esempio il kanji oggigiorno usato per indicare il tonno, in Cina indicava e indica un altro pesce… si è solo fatta confusione.

Insomma, i kanji (o hanzi per i cinesi) sono un punto comune alle due lingue, ma queste poi si sono evolute, per svariati motivi, in modo indipendente… Tanto per fare un esempio la parola vista poco più sopra e scritta con i kanji di amore e persona, 愛人 (jpn: aijin; chn: airen), indica un’amante in giapponese, ma la propria moglie in cinese. Una differenza notevole. Similmente un’altra parola particolarmente comune, come 先生 in giapponese è “sensei” e vuol dire insegnante, in cinese è “xian sheng” e vuol dire marito.

E perché a volte esistono più pronunce ON per uno stesso kanji?

A ben pensarci i giapponesi non “importavano kanji” dalla Cina, importavano testi letterari e quindi vocaboli. Ma col passare del tempo il cinese poteva essere, per i motivi detti sopra, cambiato. Così facendo, importando in epoche diverse vocaboli diversi che contenevano uno stesso kanji, i giapponesi potevano trovarsi ad aggiungere una nuova pronuncia a quel kanji.

Come risultato, il kanji 明 nella parola 不動明王 fudou myou-ou (lett.: saggio re inamovibile), si legge “myou”, così come accade in vari termini buddisti, poiché il buddismo fu importato dalla Cina in epoca molto antica, insieme ai primi kanji.

Tuttavia 明 si legge molto spesso “mei”, una pronuncia originata dalla pronuncia cinese di un’epoca successiva (due, tre secoli dopo rispetto all’epoca che ha portato alla pronuncia myou). È oggigiorno la pronuncia più usata, quella che troviamo nelle parole di uso comune… e ciò ha senso, perché scrivere parole di uso comune è diventata un’esigenza in tempi relativamente più recenti rispetto a quando si importavano i testi delle scritture buddiste.

Inoltre 明 si può leggere “min” nella parola 明朝 minchou… ovvero “dinastia Ming” (sì, quella dei vasi). E qui, sicuramente ci rendiamo conto della somiglianza (min e ming) e del perché il Giappone si sia ritrovato a introdurre una terza pronuncia durante quell’epoca: non si può andare alla corte di un imperatore della dinastia Ming e parlare di dinastia Mei o Myou. C’è gente che è stata decapitata per molto meno (e intendo letteralmente).

La nascita del giapponese come lingua scritta e le pronunce kun

Non bastava certo scrivere la parola 火山 (vulcano) e dire che andava pronunciata ka zan perché un giapponese a digiuno di cinese capisse qualcosa. Era necessario spiegare i kanji. Dire ad esempio che “il kanji 火 significa hi (fuoco)” e che “il kanji 山 significa yama (montagna)”. Insomma, nel momento in cui si provava a spiegare un kanji si stava già legando quel kanji a una parola della lingua autoctona giapponese, creando così le prime pronunce kun. Ma non è tutto qui.

Le pronunce kun nascono a tutti gli effetti solo quando i giapponesi iniziano a provare a mettere per iscritto la lingua giapponese. Avere un testo cinese con la traduzione in giapponese di ogni singolo kanji, scritta in katakana in piccolo sopra ogni kanji, non equivaleva certo ad avere un testo giapponese. Il risultato complessivo sarebbe stato del tutto incomprensibile a chi non conoscesse la grammatica del cinese, la struttura della frase cinese, le sue regole… Nonostante ciò si fecero molti sforzi per rendere possibile l’impossibile (sforzi il cui risultato è noto come kanbun o kanbun kundoku, cioè lettura kun di un testo cinese).

Quel che era necessario però era mettere per iscritto il giapponese così come era parlato, di modo che anche chi non sapesse nulla di cinese e di kanji potesse capire qualora il testo gli venisse letto.

Non si trattò di un processo facile però. A differenza del cinese che per coniugare un verbo al passato prende il kanji del verbo e vi aggiunge un kanji che funziona da particella (identica per tutti i verbi al passato), il giapponese ha desinenze verbali che cambiano di forma verbale in forma verbale.

Se ad esempio voglio scrivere il verbo andare al presente posso scrivere iku (forma piana) o ikimasu (forma cortese); alla forma negativa posso scrivere ikanai (forma piana) o ikimasen (forma cortese).

A parte il cambio dall’idea di andare a quella di non andare, tra queste forme l’unica differenza è nella desinenza grammaticale ed è una differenza fonetica, non di significato.

Considerando poi la necessità di usare solo simbolo sillabici (tanto in cinese quanto in giapponese non si hanno lettere, quindi non si distingue tra consonante e vocale), la radice del verbo sopra, iku, risulta i- e le sue possibili desinenze sono -ku, -kanai, -kimasu, -kimasen… ma queste non saranno uguali per altri verbi, ad esempio ganba-ru avrà come desinenzi -ru, -ranai, -rimasu, -rimasen. Non si tratta degli stessi identici suoni e non posso certo usare un unico kanji con la funzione grammaticale di rendere la forma negativa, un altro per quella cortese, un altro per la cortese negativa, uno per il passato e così via… Se lo facessi dovrei leggere lo stesso kanji, una volta -kanai, un’altra volta -ranai, un’altra volta -sanai… ecc. a seconda del verbo. Un ignaro lettore non avrebbe idea di come comportarsi.

Come fare dunque per scrivere parole con desinenze grammaticali, partendo dal sistema di scrittura di una lingua che non ha simili desinenze?

Immaginiamo di nuovo di dover importare in Italia i kanji e iniziare a usarli al posto delle lettere italiane. Poniamo di voler scrivere il verbo “scrivere” in kanji.
Inizio a guardarne le varie forme e mi rendo conto che la parte scriv- resta invariata (scriv-o, scriv-i, scriv-e…). Innanzitutto prendo allora il kanji che ha a che fare con l’idea di scrivere, scrittura, scrittore, e così via: 書. Dopodiché, poiché la parte a seguire, scriv-ere è solo fonetica e può variare di forma in forma, prendo dei kanji che mi permettano di rendere questa parte fonetica.

書江礼 (scriv + e + re)

Al primo kanji abbiamo attribuito la pronuncia scriv, mentre abbiamo scelto il secondo e il terzo kanji perché la loro pronuncia originale suona come i nostri suoni E e RE.

Ora facciamo come gli antichi giapponesi e dai kanji usati foneticamente passiamo al katakana. Otteniamo così 書エレ e decidiamo che la lettura della parola 書エレ è “scrivere”. Ecco che abbiamo creato la pronuncia kun di origine italiana del kanji 書, da un lato, e finalmente abbiamo un modo di scrivere il verbo scrivere all’infinito, con kanji e kana.

Non solo. Pensiamo a parole come scrittore e scrittrice e, perché no, scrittura. Decidiamo che per questi possiamo usare ancora lo stesso kanji, ma stavolta gli diamo pronuncia scritt- invece di scriv- (se il nostro discorso fosse sul giapponese sarebbe appena nata una seconda pronuncia kun), perché scritt- è la parte comune alle tre parole, mentre le desinenze possono essere rese in modo diverse.

Visto che la differenza tra scrittore e scrittrice è di genere (e fonetica), potremmo usare una desinenza in kana per renderla. Oppure potremmo usare i kanji di uomo e donna: il giapponese distingue di rado in base al genere, ma capita (come con 海人 ama, pescatore, e 海女 ama, pescatrice).

Infine, per quanto riguarda la parola “scrittura”, renderemo la desinenza con dei simboli fonetici, visto che la parola scrittura è evidentemente il sostantivo derivato da scrivere (lo scrivere è un modo di rilassarsi = la scrittura è un modo di rilassarsi).

Torniamo dall’Italia fin nel Giappone di 1500 anni fa

Nella stessa situazione appena descritta, il problema di un giapponese dell’epoca sarà stato: se voglio rendere la parola kaku, che posso pronunciare nella mia lingua, ma non ancora scrivere, come posso fare? Avendo ad esempio le forme verbali (piana/cortese) kaku/kakimasu e le corrispettive forme negative kakanai/kakimasen, come faccio a scriverle?

Decido che la parte comune deve essere quella che trasmette l’idea di scrivere, scrittura, scrittore… ecc. quindi il kanji 書 e associo questo kanji con la radice del verbo visto sopra. Limito la radice a ka- perché con i kanji non posso scrivere l’espressione kak- che termina per consonante, ho bisogno di usare simboli associati a suoni sillabici, dopodiché scrivo quanto segue con kanji fonetici, dapprima, e con il katakana poi (man mano che l’uso del katakana si andrà consolidato sarà più probabile l’uso dei kana).

Quindi 書 = ka-

…così sono nate le pronunce kun e la lingua giapponese scritta.

Il katakana fu poi sostituito dall’hiragana, nato, vuole la leggenda, per mano di Kuukai (un monaco buddista anche noto come Koubou Daishi), ma reso popolare dalle donne di corte secoli dopo, nell’era Heian …al punto che l’hiragana era noto come 女手 onnade (donna+mano → mano femminile → scrittura femminile); in contrasto ovviamente con il katakana (anch’esso creato da Kuukai, si dice, pur senza prove), noto come 男手 otokode (uomo+mano → scrittura maschile).

L’hiragana nacque puntando alla velocità di scrittura. Come il katakana, anche l’hiragana origina da kanji usati foneticamente (solo in parte gli stessi kanji che hanno dato origine ai katakana), ma invece di usare solo un pezzettino del kanji per creare il kana (e così poterlo usare in piccolo per indicare la pronuncia di un kanji, ad esempio), l’hiragana nacque dalla scrittura veloce dell’intero kanji che veniva usato solo per il suo suono.

Insomma, qualcuno si mise a scrivere i kanji fonetici velocemente, ma aveva una calligrafia così orribile che la forma del kanji divenne difficile da distinguere e allora si pensò a quanto scritto come a un nuovo simbolo… e così nacque l’hiragana (be’, non è stato niente di così pittoresco, ma l’idea è questa).

Le donne di corte di cui sopra, spesso meno acculturate e quindi incapaci di usare i difficilissimi kanji usarono l’hiragana per scrivere, almeno in parte, alcuni tra i capolavori della letteratura giapponese, come, ad esempio, il Genji Monogatari di Murasaki shikibu (sapevate che shikibu non è parte del nome e Murasaki era solo un soprannome?).

Come detto, l’uso dell’hiragana si è fatto strada nel tempo… ma non ha sostituito di punto in bianco il katakana. Per le parole straniere si sono usati a lungo dei kanji. Ad esempio Italia si può scrivere anche 伊太利亜 itaria, tutto in kanji, sigaretta, tabako, si può scrivere 煙草 (cioè fumo e erba), caffè, koohii, si scrive anche 珈琲 e così via. Usare il katakana nei testi era una scelta (in base al testo e al gusto dell’autore). Ci sono volute delle riforme a tavolino per decidere se, come e in che misura razionalizzare la lingua giapponese scritta. Alcune iniziative come la riforma dell’uso dei kana sono diventate la norma (e così, ad esempio, scriviamo かわいい e non かはいい, あった e non あつた, しょう e non しよう), altre, come l’idea di abbandonare i kanji, invece, non sono state approvate e oggigiorno sono più deboli che mai (se volete leggere perché questo è forse un bene potete leggere l’articolo che ho scritto sul perché i giapponesi non eliminano i kanji).

Ok, “tutto qui”. Abbiamo detto a questo punto tutto quel che poteva interessarci sulla nascita della lingua giapponese scritta.

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